La Cina vuole lo status di economia di mercato: e per l’Italia son dolori

di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano

Il 2016 è l’anno in cui la Cina potrebbe vedersi riconosciuto lo status di economia di mercato secondo le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO). Dietro questa formula si celano ripercussioni di vasta portata per il commercio internazionale dell’Eurozona, ed in particolare per l’Italia.

Lo status di economia di mercato è la formula tecnica utilizzata nelle investigazioni antidumping, volte ad impedire che un paese venda all’estero a prezzi inferiori ad un “equo” costo di produzione. La mancanza di tale status, cioè la condizione attuale della Cina, rende più facile l’imposizione di tariffe compensative da parte di paesi che denunciano pratiche commerciali scorrette da parte cinese. Pechino sostiene che i documenti che ne hanno autorizzato l’ingresso nella WTO, nel 2001, implicano l’automatica acquisizione dello status di economia di mercato dopo l’11 dicembre 2016. Secondo altri paesi, invece, tale testo necessiterebbe di una interpretazione.

Gli Stati Uniti spingono l’Unione europea a non ratificare tale status e far ricadere su Pechino l’onere della prova di dimostrare, in sede di contenzioso davanti alla WTO, di essere un’economia di mercato e non un’economia a forte vocazione mercantilistica, la cui proiezione internazionale è fortemente sussidiata dallo stato. La Commissione europea non si è ancora pronunciata ufficialmente sulla questione, ma secondo fonti ad essa vicine potrebbe raccomandare la concessione dello status di economia di mercato alla Cina entro febbraio. Dopo ciò, spetterebbe ai 28 stati membri ed al parlamento europeo approvare la proposta.

La posizione dei maggiori paesi europei è diversificata: il Regno Unito è favorevole, Angela Merkel è favorevole “in linea di principio”, l’Italia appare risolutamente contraria. All’Europa servono gli investimenti cinesi, mai come in un momento come l’attuale, in cui il piano Juncker da 300 miliardi fatica a decollare, e serve anche avere meno ostacoli alla possibilità che proprie imprese investano in Cina, ma vi sono molti timori che un “disarmo unilaterale” dalle tariffe antidumping possa spazzare via interi settori dell’economia europea, nel momento in cui la Cina avrà mano libera nel proprio export verso il nostro continente.

In particolare, e ciò spiega la posizione italiana, vi sono forti timori per l’industria siderurgica, che già soffre di enorme sovracapacità produttiva a livello globale, e per il tessile e la ceramica, settori dove il nostro paese ha ancora una presenza ed una vulnerabilità rilevanti. Le imprese europee della ceramica prevedono la perdita di 100mila posti, la metà dell’occupazione di un settore da 28 miliardi di euro, in conseguenza del via libera alla Cina. Studi commissionati dall’industria europea ipotizzano una perdita totale di occupazione compresa tra 1,7 e 3,5 milioni di posti. Per l’Italia, Ilva appare la più nota vittima sacrificale. Ma rischia di essere il simbolo di una nuova fase di sofferenza produttiva del nostro paese.

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