La valanga che Pechino non ha saputo fermare

di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano

Il drammatico crollo dei mercati azionari di ieri, preannunciato nei giorni e settimane precedenti da sinistri scricchiolii, quasi tutti originatisi in Cina, segna la sconfitta epocale della tecnocrazia monopartitica di Pechino, sin qui considerata quasi onnisciente. Ma per indurre una simile deflagrazione planetaria è stato ovviamente determinante il concorso di mercati finanziari sempre più interconnessi ed integrati, e di condizioni di liquidità globale che è al contempo abbondante e scarsa.

Lo spregiudicato esperimento cinese di convogliare il risparmio dei privati verso il mercato azionario ha alimentato una bolla fatta di posizioni a leva, cioè costruite con indebitamento. Le valutazioni di mercato hanno raggiunto e superato l’assurdo, scontando un boom futuro di utili incompatibile con l’evidente rallentamento strutturale del paese, afflitto da sovracapacità produttiva e bolla creditizia. Quando è giunto il redde rationem, cioè il risveglio alla realtà degli investitori, con conseguenti forti vendite, le autorità cinesi non hanno saputo far meglio che difendere le quotazioni, immolando a tale compito un importo stimato in 200 miliardi di dollari. Strategia che rappresentava una enorme distruzione di valore, ed aveva in sé i germi della propria sconfitta, perché fissava un valore delle imprese coinvolte artificiosamente elevato e persino crescente nel tempo, visto il deterioramento della congiuntura cinese.

Nel corso del fine settimana, le autorità cinesi hanno improvvisamente realizzato ciò, ed oggi hanno smesso di “difendere” la soglia di 3.500 punti dell’indice della borsa di Shanghai. Questo voltafaccia ha traumatizzato i mercati, che invece si attendevano dai cinesi l’ennesimo taglio dei tassi d’interesse e del coefficiente di riserva obbligatoria, lo strumento di regolazione della liquidità sul mercato creditizio. Il contagio si è esteso a tutti i mercati perché si è presa definitiva coscienza che la Cina non potrà più essere il motore di crescita dell’economia globale che abbiamo conosciuto, e che la ripresa statunitense e quella europea non hanno il vigore necessario per compensare la perdita di potenza cinese. Il primo e più evidente segnale di rallentamento dell’economia cinese è giunto dal mercato delle materie prime. Ma qui, a livello globale, si è avuto non solo uno shock di domanda ma anche di offerta: i produttori di petrolio, rame, minerali di ferro ed altre commodity hanno infatti ingaggiato una feroce guerra per metter fuori mercato i concorrenti meno competitivi. Serviva un taglio di offerta di materie prime, si è avuto un forte incremento.

Altro elemento che ha portato alla deflagrazione dei mercati di questi giorni è stato il gonfiamento delle quotazioni azionarie, frutto delle politiche monetarie eccezionalmente lasche perseguite in questi anni nei paesi sviluppati, per combattere la crisi. Le operazioni di easing quantitativo, cioè l’acquisto di titoli obbligazionari da parte delle banche centrali, schiacciando i rendimenti a zero, provocano giganteschi ribilanciamenti dei portafogli degli investitori: liquidità ed obbligazioni rendono poco e nulla per cui si investe sull’azionario, gonfiandone le quotazioni rispetto agli standard storici. L’equilibrio così ottenuto è molto fragile e, quando si innescano forti vendite globali, la liquidità di mercato viene meno, perché i compratori spariscono. In questo senso la liquidità “macro” è abbondante, perché i tassi sono prossimi allo zero, ma quella “micro”, dei mercati finanziari, tende ad evaporare perché gli investitori sono tutti o quasi dalla stessa parte: nei rialzi ma anche nei ribassi, che tendono a divenire brutali.

Dopo questo episodio di panico finanziario la cui incubazione parte da lontano, nel tempo e nello spazio, appare ormai evidente che la Cina, da “salvatrice” di economia e finanza mondiali, rischia di divenirne la maggiore minaccia.

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