di Andrea Gilli
In un commento al post precedente, un lettore (Frank77) pone un’interessante domanda a cui vale la pena dare una risposta articolata: in un ipotetico attacco alla Siria, gli USA non potrebbero usare dei droni?
Per rispondere basta dire che tra chi crede fattibile questa opzione c’è Anne-Marie Slaughter. Quando si è insicuri su una certa politica, la Slaughter ha la rara capacità di indicarci con puntualità svizzera la posizione sbagliata – che lei ovviamente sostiene. E’ un buon punto di partenza.
Ora vediamo perché un attacco con droni non è fattibile. Nonostante il casino (uso la parola volontariamente) che appare sui media a proposito dei droni, gli aerei senza pilota in grado di lanciare dei missili sono davvero pochi: il Predator e il suo update, il Reaper, sono tra questi. I due velivoli sono però inadatti per un attacco alla Siria. Focalizziamoci sul Reaper, che dei due è quello più avanzato:
* Il Reaper monta relativamente pochi missili (se paragonato per esempio al B-2 Spirit): al massimo 14 AGM-114 Hellfire, oppure 4 Hellfire e due GBU-12 Paveway II o due GBU-38 JDAM, entrambe da 230 kg.
* Questi missili sono relativamente leggeri: l’Hellfire è un missile anti-carro, mentre le due GBU menzionate sono tra le più piccole bombe “intelligenti” prodotte e quindi non sono in grado di distruggere obiettivi particolarmente estesi in termini di diametro o rinforzati come bunker protetti da barriere esterne.
* Inoltre, il Reaper non ha difese aria-aria o elettromagnetiche. Ciò significa che sia le difese anti-aeree siriane che gli strumenti per attacchi elettromagnetici inevitabilmente renderebbero molto difficile il loro uso in Siria.
Basterebbe dunque eliminare le difese anti-aree e i centri di comunicazione e controllo siriani per poter usare questi. La domanda sorge spontanea: non ci sono altri droni in grado di svolgere tale missione? Nel medio termine, molti Paesi – tra cui gli USA e l’Europa – si doteranno di droni di questo tipo: gli UCAV come l’X-47B americano o il nEUROn europeo. Al momento però, questi droni non sono né in produzione né hanno completato tutti i loro test e il caso siriano non è così urgente da rischiare un impiego anticipato: la perdita di uno di questi droni potrebbe infatti rivelare segreti a Paesi nemici o avversari oppure porre dei rischi significativi. Si pensi per esempio se per problemi tecnici il drone iniziasse a volare su rotte non pianificate minacciando sia voli civili che militari.
In definitiva, i droni non sembrano molto utili per affrontare il caso siriano. L’uso di missile da crociera Tomahawk lanciati da sottomarini a propulsione nucleare o cacciatorpedinieri della classe Arleigh Burke pare molto più adatto.
PS: chi fosse interessato, può trovare la bozza di un paper (anche disponibile qui) che Mauro e Andrea Gilli hanno presentato alla conferenza annuale dell’American Political Science Association tenutasi a Chicago a fine agosto.
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