La corsa alla pressione fiscale

di Mario Seminerio – Il Tempo

Il consiglio dei ministri fiume di venerdì 24 agosto (oltre otto ore) pare non aver prodotto effetti tangibili, sul piano delle decisioni operative. Probabilmente si è trattato di un momento di puntualizzazione di metodo, per i prossimi interventi. Oppure è stata l’ennesima presa di coscienza che la mancanza di risorse impedisce interventi efficaci. Come che sia, la responsabilità di questa situazione di stallo non può essere imputata all’attuale esecutivo, per evidenti motivi. Piuttosto, la profondità della crisi e la continua contrazione del Pil costringono il governo ad inseguimenti che vengono frustrati dalla realtà o che, nei fatti, rischiano di trasformarsi in aumento della pressione fiscale anche al di là delle migliori intenzioni dell’esecutivo. Vediamo un esempio eclatante, ma non l’unico.

Da tempo (dal precedente governo, per essere precisi) si parla di razionalizzare gli interventi di assistenza fiscale a famiglie ed imprese. La logica dell’intervento è evidente: eliminare le cosiddette tax expenditures, cioè la massa di crediti di imposta stratificatasi in lustri di buone intenzioni e corporativismo asfissiante, per arrivare a ridurre le aliquote d’imposta nominali. Fin qui, tutto bene. Se non fosse che, oggi, il governo sarà costretto a mettere mano (cioè a rimuovere) quelle agevolazioni fiscali unicamente con la finalità di fare cassa, senza poter ridurre le aliquote d’imposta. Visto che l’esecutivo sta cercando di scongiurare l’aumento dell’Iva previsto per il prossimo anno, dopo aver neutralizzato quello relativo all’ultimo trimestre del 2012 attraverso i risparmi della spending review, si ipotizza che proprio dallo sfoltimento delle agevolazioni fiscali possa venire la copertura necessaria, nella persistente assenza di crescita, che avrebbe invece prodotto “spontaneamente” le risorse fiscali di cui necessitiamo. Sfortunatamente, se anche le cose andassero così, il risultato finale sarebbe comunque un aumento di pressione fiscale netta nel presente, perché i tagli alle agevolazioni fiscali non sarebbero compensati da riduzioni d’imposte ma verrebbero immolati alla copertura di buchi di bilancio, nella fattispecie quelli a cui erano destinati gli aumenti Iva.

Per poter tagliare le imposte serve un’economia che, come minimo, smetta di contrarsi, cosa che non sta ancora avvenendo, visto che la recessione italiana potrebbe quest’anno tradursi in una riduzione del Pil reale di oltre il 2 per cento, sotto il peso congiunto di una stretta fiscale violenta e di un sistema bancario che sta lentamente tentando di ridurre il proprio eccesso di indebitamento ma lotta con crescenti carichi di sofferenze sui prestiti, causate dalla profondità della recessione. Questa congiuntura rende il paese simile ad una cavia da laboratorio che corre a perdifiato su una ruota: nessun reale avanzamento ma enorme fatica ed impossibilità a smettere, pena una rovinosa caduta.

Alla luce della criticità attuale, il decennio successivo all’introduzione dell’euro appare un’opportunità tragicamente perduta. Un’incidenza della spesa per interessi su Pil passata dall’11 al 5 per cento è stata sprecata dal nostro paese in aumenti di spesa pubblica, in larga misura di tipo corrente, anziché in riduzione della pressione fiscale su famiglie ed imprese, contestuale ad una ristrutturazione dei meccanismi di spesa. La Germania, per contro, è riuscita a liberarsi dei vincoli di Maastricht (nel 2003) ma non per fare deficit spending fine a sé stesso (ad esempio, finalizzato ad un effimero sostegno dei consumi), quanto per ristrutturare il proprio welfare, e porlo al servizio di un sistema produttivo e di relazioni industriali inequivocabilmente votati alla crescita. Negli anni successivi a tale ristrutturazione, che è avvenuta in un contesto globale di crescita e non ferocemente recessivo come l’attuale, la Germania è riuscita a mantenere un ricco welfare e ad utilizzare in funzione anticiclica la spesa pubblica, contenendone comunque la dinamica di crescita al di sotto di quella del Pil.

Se nostro obiettivo è quello di ridurre l’incidenza della spesa pubblica sul Pil, appare piuttosto proibitivo farcela nel momento in cui il Pil reale si contrae e quello nominale si trova (nella migliore delle ipotesi) a crescita zero, a causa di una stretta fiscale pari a sei punti percentuali in un biennio e con le banche in un credit crunch sia congiunturale che da obblighi regolatori internazionali. Perché tagli in valore assoluto della spesa pubblica sono e restano recessivi, nel breve-medio termine. Soprattutto quando destinati, come nel nostro caso, non a ridurre l’imposizione fiscale ma a chiudere buchi di bilancio pubblico.

Senza crescita, nessuno sforzo riformatore potrà essere coronato da successo: nessuna riforma di struttura, per quanto necessaria, presa isolatamente potrà trasformare una maggiore crescita potenziale in crescita effettiva, meno che mai in un contesto economico europeo e globale fortemente indebolito come l’attuale. Si pensi al velleitarismo di procedere ora a privatizzazioni, in presenza di questi corsi di borsa e nel punto di minimo storico globale (non italiano né europeo) di collocamenti di proprietà pubbliche sul mercato.

Si è spesso affermato che il nostro paese riesce a mostrare volontà riformatrice solo in condizioni di emergenza economica e vincolo esterno. Ciò è stato solo in parte vero per la convergenza all’euro, quando i conti tornarono in qualche modo ma le riforme di struttura continuarono a mancare, e lo storico “dividendo” della moneta unica venne sperperato in torrenti di spesa pubblica sterile quanto i dibattiti politici. Oggi la storia si ripete, ma solo in parte: costretti a riformare da un vincolo esterno che rischia di chiamarsi default, ma senza le condizioni economiche idonee per poterlo fare. E senza vere alternative a questa strada, peraltro. Per questo motivo il percorso di “aggiustamento” italiano si sta dimostrando così doloroso e ancor più lo sarà, nel prossimo futuro.

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