La guerra in Iraq: una prospettiva più ampia

di Andrea Gilli

La guerra in Iraq è finita formalmente nel weekend, con il ritiro degli ultimi soldati americani. Dopo nove anni di guerra, come valutare quell’esperienza? Ho raccolto dei dati per fare un ragionamento approfondito. Il quadro è complesso. Nonostante alcuni sviluppi positivi, la mia impressione è che il bilancio sia ancora negativo.

Infatti, se le condizioni di vita dei singoli iracheni sono, in media, migliorate, a livello di gruppo, religioso ed etnico, la situazione pare diversa: in particolare, la libertà religiosa sembra più minacciata e il rischio di tensioni etniche più alto. A livello aggregato alcuni dati sono positivi: il Pil, la produzione petrolifera, e l’export non-petrolifero. Il Paese è migliorato dal punto di vista politico (democrazia, etc.), ma ciò non considera il costo enorme in termini di vite umane causato dalla guerra. Costo che purtroppo è difficile computare in quest’analisi. A livello regionale, il quadro diventa più preoccupante, principalmente per l’influenza iraniana in enorme ascesa. A livello sistemico, va invece considerato il ruolo negativo che la guerra in Iraq ha avuto sulle posizione degli Stati Uniti nel mondo. In particolare, il suo costo sulle finanze pubbliche e la distrazione che ha rappresentato dagli sviluppi in Asia centrale (Pakistan e Afghanistan) e in Asia orientale (Cina e Pacifico).

Per elaborare l’analisi più esaustiva possibile, evitando così di farsi guidare dai propri pregiudizi, credo sia necessario ragionare per livelli: individuale, etnico/religioso, nazionale, regionale e internazionale. Ho così raccolto dei dati per ogni livello. Nei prossimi paragrafi discuto dunque alla luce dei dati disponibili le conseguenze della guerra lanciata dagli Stati Uniti nel 2003.

Gli iracheni: i singoli individui
A livello individuale, la domanda è se gli iracheni stiano meglio o peggio del 2003. Proviamo a guardare qualche dato. Il Pil pro-capite degli iracheni è cresciuto drammaticamente negli ultimi nove anni, come dimostra la prima figura.

Questo dato non dice tutto. In particolare non ci dice se questo incremento è dovuto ad una riduzione della popolazione, ad una crescita generalizzata del benessere, oppure ad una forte crescita del reddito di una piccola parte dei cittadini. Sebbene non siano disponibili dati sulla distribuzione del reddito all’interno dell’Iraq, i dati dimostrano che la popolazione è cresciuta e così il Pil totale. Ciò suggerisce che il benessere dell’iracheno medio è aumentato, anche se verosimilmente questa crescita varia significativamente tra regioni, strati sociali ed etnie.

Per valutare questo secondo aspetto, considero lo Human Development Index. Questo indice misura non solo il Pil pro-capite, ma anche la speranza di vita alla nascita e l’istruzione. E’ dunque particolarmente appropriato per valutare se la situazione dell’iracheno medio è migliorata o no. Nel 2005, il valore di questo indice per l’Iraq era pari a 0.552, nel 2011 il valore era salito a 0.573 [Nota: il dato non è disponibile per alcun anno precedente]. Una crescita ridotta ma importante che segnala il miglioramento della qualità della vita degli iracheni. Altri indicatori raccolti dallo UNDP, partendo dal 2002, confermano quest’impressione: se guardiamo alla mortalità infantile, alla speranza di vita, all’istruzione, la vita dell’iracheno medio è migliorata (tabella). Ovviamente, si può obiettare che la drammatica situazione in cui verteva il Paese nel 2002 era dovuta alle sanzioni internazionali. Ciò è certamente vero, ma purtroppo non c’è modo, se non ragionando su “se” astratti di immaginare lo sviluppo alternativo del Paese senza la guerra (e la conseguente ipotizzabile abolizione delle sanzioni internazionali).

 IRAQ20022011
Mortalità infantile per mille [1]13044
Speranza di vita alla nascita58.769
Anni istruzione attesa8.59.8
% alfabetizzazione adulta [2]55.978.1
Anni di istruzione media4.85.6
% iscrizione scolastica4953.5
% popolazione >5$ [3].4
% Mortalità da parto [4]       84 [5]75
Partecipazione femminile al lavoro [6]   0.177 [5]0.2
[1] bambini <5 anni; [2] popolazione >25 anni; [3] $ ppp; [4] su 100.000 parti;
[5] dato del 2000; [6] Rapporto uomini donne in età lavorativa, 25-64 anni.

 

I gruppi religiosi
Il secondo livello di analisi è quello dei gruppi religiosi. In Iraq, la religione di appartenenza è un importante collante della società e il Paese ha diversi gruppi religiosi. La divisione più importante è tra sciiti (60-65%) e sunniti (32-37%). Vi sono altre minoranze (3%) che includono i cristiani (assiri e caldei) e gli yazidi. Non ci sono purtroppo indici globali sulla libertà religiosa. Il Dipartimento di Stato Americano pubblica però ogni anno un Rapporto su questo tema. Nel 2002, l’anno prima dell’invasione dell’Iraq, il rapporto notava che sciiti, cristiani e altri gruppi religiosi erano particolarmente minacciati. L’enfasi riguardava in particolare il sud, dove risiedono gli sciiti. Nel suo rapporto del 2006, il quadro riportato dal Dipartimento di Stato sembra nettamente peggiorato: le violenze contro i sunniti sono aumentate, e così quelle contro cristiani e yazidi, ma le violenze contro Sciiti non sono scese drammaticamente. Nel rapporto del 2010, vengono invece elencate le numerose misure e azioni prese per contrastare la violenza religiosa in Iraq. In assenza di dati su cui ragionare, se da una parte il problema non pare essere in netta discesa, dall’altra sembra esserci la volontà di contrastarlo.

Livello regionale/etnico
L’Iraq è diviso in tre aree che, fondamentalmente, coincidono con la divisione etnica del Paese: i curdi a nord, i sunniti in centro e gli sciiti a sud-est. Purtroppo non ho trovato alcun dato sulla performance socio-economica delle tre aree, e neppure a livello provinciale. E’ possibile che i dati esistano ma per ragioni politiche non vengano diffusi. Mi è quindi impossibile ragionare più a fondo su questo livello.

Livello nazionale
A livello nazionale, l’Iraq ha fatto certamente degli importanti progressi. Come ricordato in precedenza, il Pil del Paese è cresciuto durante questo periodo e così i pricipali indicatori di sviluppo (istruzione, sanità, etc.). La produzione di petrolio è cresciuta. Così sembrerebbe anche l’export petrolifero, ma mancano dati precisi a proposito [Nota: gli indici dell’FMI non riportano alcun dato per questa variabile]. La sicurezza del Paese è migliorata. Anche se rimane un grande counter-factual su cosa sarebbe successo se la guerra non fosse stata lanciata. Leggermente positivi sono stati anche gli sviluppi politici. Stando a Freedom House, dal 2002 al 2011, l’indice dei diritti politici è migliorata (da 7 a 5) e così l’indice delle libertà civili (da 6 a 5). Allo stesso modo, per Human Rights Watch, la situazione in Iraq è particolarmente precaria per quanto riguarda la libertà di espressione, gli abusi sulla popolazione e sulle minoranze (donne, bambini, confessioni religiose, etc.), anche se, dai peggiori momenti della guerra civile, la situazione è lievemente migliorata.

Il Medio Oriente
A livello regionale, il calcolo diventa più difficile, in quanto ai dati bisogna necessariamente sostituire l’analisi e le interpretazioni. Due considerazioni mi paiono appropriate. Abbattendo l’Iraq di Saddam è crollata la politica di Clinton del dual containment contro Iran e Iraq. In breve: si lasciava che i due avversari si fronteggiassero a vicenda, dovendo così impegnare meno risorse. Con l’abbattimento di Saddam, l’Iran è emerso invece come un attore ancora più importante nella regione. Ciò è dovuto sia al fatto che le resistenze politiche e militari dell’Iraq sono svanite e, forse ancora di più, al fatto che la maggioranza della popolazione irachena è di fede sciita. L’Iran ha acquisito influenza sull’Iraq, come dimostrano le recenti prese di posizione del governo iracheno sulla Siria e, più in generale, le sue relazioni proprio con l’Iran.

La questione sciita rappresenta un’insidia in quanto gran parte delle monarchie del Golfo ha governi sunniti e popolazioni in parte sciite. Nel caso in cui l’orbita dell’Iraq dovesse pendere sempre più verso l’Iran, uno scontro militare a livello regionale potrebbe essere inevitabile, confermando così la previsione di Kissinger sul fatto che il Medio Oriente debba affrontare le sue guerre di religione. Questo rafforzamento dell’Iran, inoltre, sta spostando l’asse geopolitico della regione a sfavore di Israele, favorendo un’altra spirale pericolosa nella regione. C’è infine la questione della primavera araba. Da più parti si legge che questa sarebbe una diretta conseguenza della guerra in Iraq. Mi sfugge il nesso temporale e causale: la guerra in Iraq è stata lanciata nel 2003, le rivolte arabe si sono osservate nel 2011, e queste non sembravano minimamente influenzate da quanto successo in Iraq. In ogni caso, è tutto da vedere che la primavera araba porterà ad una stabilizzazinoe della regione e ad una sua apertura democratica.

Il quadro sistemico
A livello sistemico, le conseguenze della guerra in Iraq sembrano essere meno positive. Anche in questo caso, ogni analisi è fortemente viziata dall’interpretazione dei dati che si dà. Mi pare però che tre questioni, di fondamentale importanza, vadano esaminate. In primo luogo, la guerra all’Iraq ha distratto gli Stati Uniti dall’Afghanistan e, più in generale, dalla guerra al terrorismo. Si pensi ai problemi e alle difficoltà che l’Afghanistan sta attualmente affrontando e, di conseguenza, si pensi come potrebbe essere (migliore) la situazione, se gli USA avessero dedicato tutte le loro energie a questo Paese. Da quando è Presidente, Obama si è concentrato sull’Afghanistan, facendo anche consistenti aumenti di truppe. In passato, specie nel periodo 2004-2007, questi sono stati molto più difficili (se non impensabili) per via delle risorse che l’Iraq richiedeva.

Infatti, questa negligenza strategica ha largamento contribuito alla drammatica situazione che l’Afghanistan sta affrontando. Il dato che meglio illustra questa situazione riguarda il numero di caduti tra le truppe Occidentali nel Paese. Dal 2001 al 2010, queste sono sempre cresciute, segno della crescente insicurezza.

Va inoltre considerato che il costo di questo fallimento si estende oltre i confini dell’Afghanistan, in quanto questo riguarda anche il Pakistan, il cui regime si è indebolito negli anni. Questa situazione desta particolare preoccupazione sia per le relazioni tra India e Pakistan che per l’arsenale nucleare pakistano.

In secondo luogo, la guerra in Iraq ha assorbito ingenti risorse americane, in termini assoluti: circa 90 miliardi di dollari l’anno per gli ultimi 9 anni in modo diretto (contro i 40 spesi in Afghanistan) A questi vanno aggiunti i costi accessori (perdite di vite americane, etc.). Joseph E. Stiglitz e Linda J. Bilmes hanno stimato il costo totale della guerra in 5.000 miliardi di dollari. Si pensi a quanto cifre del genere potrebbero essere utili ora per stimolare l’economia globale o stabilizzare i conti pubblici americani. Mi pare, inoltre, che questo calcolo non consideri un elemento fondamentale. Infatti, la politica monetaria espansiva adottata da Greenspan dal 2001 in poi serviva in parte a stimolare l’economia americana in tempo di guerra. Così facendo, però, questa politica ha poi finito per favorire la bolla immobiliare e le operazioni finanziarie più spericolate che hanno portato alla crisi del 2007/8.

C’è infine un aspetto di pianificazione militare. Da una parte, la guerra in Iraq ha richiesto un enorme sforzo finanziario, organizzativo e imprenditoriale per contrastare l’insorgenza irachena (e afghana). Dal combattere altri stati, US Army e US Marine Corps hanno imparato a combattere tra la popolazione. Dallo sviluppare armamenti a lungo raggio, per proiettare oltre mare il proprio potere militare, le aziende della difesa americana hanno sviluppato strumenti leggeri e da terra. Oltre alle risorse assorbite, questo sforzo è totalmente inutile in un’ottica in cui la guerra tra stati continua a dominare lo scacchiere internazionale. Si pensi ai fondi investiti per combattere le mine artigianali. Senza la guerra, quei fondi sarebbero stati disponibili per altri investimenti. Per esempio, attualmente gli USA stanno pensando di ridurre la loro partecipazione nel programma F-35 Joint Strike Fighter. Oppure, negli anni passati gli USA hanno cancellato il programma Future Combat Systems o il programma MEADS, hanno bloccato a 197 il numero di F-22/A raptors, e hanno ridotto il loro tasso di produzione di portaerei.

Negli ultimi mesi, gli Stati Uniti hanno cercato di definire come tagliare la loro spesa militare senza compromettere la loro posizione internazionale. Forse è vero che nessun Paese, neppure la Cina, riuscirà a sfidare gli Stati Uniti, anche nel medio periodo. Resta il fatto che, la guera in Iraq è costata direttamente più di 800 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti programmano di tagliare per mille miliardi di dollari la loro spesa militare nel prossimo decennio. Ciò significa che senza quella guerra, questi tagli non sarebbero praticamente necessari. Senza ovviamente considerare che la situazione economico-finanziaria del Paese sarebbe verosimilmente diversa. Queste valutazioni sembrano particolarmente appropriate se guardiamo l’altra faccia della medaglia: gli sviluppi politico-militari in Asia orientale, dove la Cina ha visto il proprio ruolo crescere nella regione. Proprio questi sviluppi hanno portato, recentemente, gli Stati Uniti a rafforzare la loro presenza nell’area, per esempio intensificando i loro legami con una serie di alleati regionali (Vietnam, Australia, Corea del Sud, Giappone, India). A proposito, è importante notare che il ritiro dall’Iraq e dall’Afghanistan non sembra estraneo a queste dinamiche. Anche in questo caso, le risorse investite in Iraq potevano, in minima parte, essere utilizzate per rafforzare la defense posture in Asia orientale, consolidando così l’egemonia americana sia a livello regionale che mondiale.

Conclusioni
Per concludere, dai dati analizzati, sembra che le condizioni di vita degli iracheni siano in generale migliorate, anche se questi dati non considerano le enormi perdite civili che sono state causate dalla guerra, e il dopo-guerra. A livello di gruppi sociali, la situazione è più complessa. In particolare, la libertà religiosa è stata progressivamente minacciata. A livello nazionale, molti indici sono positivi (economia), anche dal punto di vista politico, nonostante la precarietà dell’assetto istituzionale del Paese. Inoltre, le prospettive attuali del Paese sono migliori di quelle del 2002, quando il regime di Saddam pareva inattaccabile. Più complicata è la questione a livello regionale e internazionale. La guerra ha infatti favorito l’ascesa dell’Iran e le tensioni inter-religiose (sciiti-sunniti) e inter-statali (Iran-Israele, Iran-Arabia Saudita). Infine, ha rappresentato una costosa distrazione di risorse e di investimenti per gli Stati Uniti che così, in un momento di transizione geopolitica, si trovano in difficoltà finanziaria e militare. Per questa ragione continuo ad essere dell’opinione che la guerra all’Iraq sia stato un errore.

* * *

Due anni fa John Duffield e Peter J. Dombrowsk (2009) hanno scritto un libro su questo tema. Non ho letto il libro, ma può essere utile a chi volesse approfondire.

UPDATE: Stefano Magni ci ha segnalato un errore relativo agli indici di Freedom House. Interpretavamo in maniera errati i suoi indici sulla libertà politica. Abbiamo corretto il testo. Ringraziamo Magni per la segnalazione.

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