Ragioniamo sull’F-35

di Andrea Gilli – (anche su nFA)

Alcuni giorni fa, Sandro Brusco su nFA  ha fatto chiarezza sul programma F-35 e, in particolare sui (pochi) risparmi immediati ottenibili da una sua cancellazione. In questo articolo, cerco di discutere un po’ più in profondità il programma, illustrando le varie questione sottostanti.

In primo luogo vale la pena fare un breve riepilogo. Il programma F-35/Lightning II Joint Strike Fighter è un aereo multi-ruolo ottimizzato per l’attacco al suolo di quinta generazione. Il programma è stato lanciato negli Stati Uniti nel 1996, per rispondere sia ad un nuovo panorama strategico (crollo dell’URSS) sia a una nuova situazione di bilancio (peace dividend). È stato pensato multi-ruolo così da poter svolgere più funzioni e, di conseguenza, servire più clienti (US Navy, US Marine Corps, alleati, etc.) e sfruttare maggiormente le economie di scala. Inizialmente, doveva essere un aereo economico (30 milioni di dollari).

Una volta che Lockheed Martin ha vinto la gara, nel 2001, il programma è stato allargato ai principali alleati degli USA. Attualmente, il programma è quindi multinazionale, ma a guida americana con la partecipazione di Gran Bretagna, Italia, Olanda, Cananda, Norvegia, Israele, Turchia e Australia. Da quanto la fase di sviluppo è iniziata (2001), il programma ha subito enormi aumenti di costi (vedi tabella 1). La ragione si trova nel fatto che molte delle sue tecnologie non erano abbastanza mature. Di conseguenza, sono stati necessari enormi aggiustamenti. Al momento l’aereo dovrebbe costare oltre 112 milioni di dollari, ma da più parti si stima che il suo costo arriverà a toccare i 140 milioni.

 

Ottobre 2001Marzo 2007Dicembre 2008Richiesta 2011
Fondi richiesti196.6 bn $231.7 bn $255 bn $273.3 bn $
Quantità richieste2.8522.4432.4412.443
Costo Unitario69 m $95 m $104 m $112 m $

Fonte: US GAO, Joint Fight Striker: Additional Costs and Delays Risks not Meeting Warfighter Requirements on Time (Washington, DC: GAO, 2010): 9, Tab. 2.

Non è consolante, ma va sottolineato che gli aumenti dei costi e i ritardi sono purtroppo frequenti nei programmi militari. La ragione si trova nel fatto che Forze Armate, industria e Congressohanno un incentivo enorme ad approvare un programma così che, stanziati dei fondi, la logica dei “sunk cost” lavori contro la sua cancellazione futura.

Per quanto riguarda il nostro Paese, l’Italia è entrata nel programma Joint Strike Fighter nel 1998, durante la fase di dimostrazione concettuale al termine della quale, nel 2002, il nostro governo ha poi deciso di proseguire anche nella fase successiva, quella di sviluppo e dimostrazione del sistema. Ciò ha richiesto un investimento di 1 miliardo di euro. L’Italia ha poi firmato il Memorandum of Understanding nel 2006 per iniziare la fase di produzione, che continua tutt’ora.

Perchè compriamo i sistemi militari?

Per capire come mai compriamo l’F-35 è necessario innanzitutto capire come mai compriamo dei sistemi militari. La ragione si trova nell’insicurezza che regna a livello internazionale. Storicamente le alleanze sono temporanee, gli amici diventano nemici e dunque gli stati sovrani possono solo contare sui propri mezzi militari per garantire la loro sicurezza. Qualcuno potrebbe obiettare che, in periodo di pace, la spesa militare vada abbattuta. Ciò è in parte successo a partire dalla fine della guerra fredda. Nel 1988 l’Italia spendeva il 2.3% del pil in difesa. Nel 1997 la sua spesa era scesa all’1.9% (1.8% nel 2009). Nello stesso periodo, la Gran Bretagna passava dal 3.9% al 2.7% (2.5%), la Francia dal 2.9% all’1.7% (1.4%) e gli Stati Uniti dal 5.5% al 3.3% (2.5%). [Sono dati forniti dal SIPRI. Aggiungo che i dati del SIPRI non mi convincono molto. La spesa italiana infatti non solo include cosa non dovrebbe essere incluso (come il costo dei Carabinieri) ma va addirittura oltre. Credo dunque che sia una stima molto inflazionata. La colpa non è tanto del SIPRI ma del nostro governo – come di molti altri – che a livello internazionale hanno tutto l’interesse a gonfiare le cifre di spesa per non apparire deboli in sede NATO.]

Non è però opportuno fare dei tagli eccessivi. In primo luogo, un valido apparato militare rappresenta un deterrente contro dei possibili nemici. Detto in altri termini, contribuisce a mantenere la pace e il benessere. In secondo luogo, un apparato militare efficace richiede decenni di investimenti industriali e in addestramento che difficilmente possono essere ricomposti in caso di bisogno. Per fare un esempio, gran parte dell’equipaggiamento usato in Libia (inclusi gliEurofighter e gli AMX) deriva da investimenti lanciati negli anni Ottanta. Se interrompiamo i nostri investimenti attuali, il rischio è di trovarci impreparati in futuro.

Per tornare all’F-35, la questione può essere semplificata come un trade-off. La produzione dell’F-35 è un consumo di investimenti passati che produce sicurezza in maniera decrescente nel tempo. Alternativamente, potremmo continuare ad investire in tecnologie militari che reputiamo utili per il futuro e così garantirci maggiore sicurezza futura. Ciò avverrebbe al rischio di maggiore insicurezza presente o nel vicinissimo futuro.

Se pensiamo che la guerra tra Stati faccia parte della storia, allora l’F-35 non ci serve. Se pensiamo che la crescita militare di Cina, Iran o Russia rappresenti una possibile minaccia per il futuro, allora un programma come l’F-35 può avere una sua ragion d’essere.

Come mai 131 velivoli?

L’Italia comprerà 131 velivoli. Qualcuno potrebbe obiettare che sono tanti. Vanno fatte due considerazioni.

In primo luogo, l’Italia deve sostituire i suoi Tornado, i suoi Harrier, etc. Anche se cancelliamo l’F-35, dovremo dotare le nostre Forze Armate di mezzi per l’attacco al suolo avanzati. L’F-35 è la scelta migliore, da un punto di vista tecnologico. Anche se facciamo una scelta diversa, qualcosa va acquistato. A meno, ovviamente, di fare una scelta radicale di disarmo, che andrebbe argomentata al di fuori di manovre economiche contintengenti.

In secondo luogo, va considerato che, in termini di pianificazione militare, ogni flotta va divisa in tre gruppi: operazioni, manutenzione e addestramento. L’F-35 vola a oltre 1.500 km l’ora, monta sensori sofisticati, e incorpora oltre 10.000 km di cavi. Come l’auto va portata a cambiare l’olio, così gli aerei devono andare in manutenzione. Viste le sollecitazioni esterne (climatiche, fisiche, etc.), è chiaro che i tempi sono lunghi. Parimenti, un pilota ha bisogno di volare su un mezzo per conoscerlo a fondo. Gli addestratori di terra o di aria non sono sufficienti. Poichè abbiamo più di 40 piloti, questi devono ruotare sui mezzi disponibili. Ecco che da 131 mezzi totali che acquisteremo, quelli operativi sono circa una quarantina. Non è una cifra impressionante, specie se pensiamo di poterne aver bisogno come accadde nel 1991 in Iraq, nel 1999 in Kossovo o quest’anno in Libia.

La logica industriale

Il mercato degli armamenti è un oligopolio internazionale. Gli stati sovrani hanno dunque un enorme interesse ad entrarvi per potersi accaparrare gli extra-profitti che ne derivano. Non sempre va bene, come nel caso del francese Rafale, ma il giudizio sull’opportunità di partecipare è sempre complicato.

Quando gli Stati Uniti hanno proposto ai loro alleati di entrare nel programma F-35, molti di questi non avevano molte alternative. In Europa, nessuno poteva finanziare un programma analogo in termini di dimensioni o di tecnologie. Semplicemente mancavano i soldi. Dall’altra parte, le flotte per l’attacco al suolo andavano aggiornate anche in Europa. Quindi, o si entrava, si rinnovavano le flotte e, inoltre, si partecipava ad un enorme banchetto (l’F-35 è il programma più grande della storia: 300 miliardi di dollari di valore per 3.000 aerei. Come termine di paragone l’Eurofighter, il programma più grosso in Europa, è riuscito a malapena a produrre 600 aerei). Oppure si stava fuori e si perdeva un’enorme opportunità industriale.

I Paesi europei produttori di aerei da combattimento fecero un’enorme pressione perchè la scalata europea dell’F-35 fallisse (Francia con Dassault, Svezia con SAAB e Germania-Spagna con EADS). Gli altri, però, fecero i loro calcoli e decisero di entrare. Questo è il caso dell’Italia (Alenia) e del Regno Unito (BAeS). Così facendo, inoltre, le due aziende potevano entrare in possesso di tecnologie avanzate che avrebbero poi potuto utilizzare in futuro.

Il Regno Unito è riuscito a sviluppare un avanzatissimo dimostratore tecnologico senza pilota, ilTanaris, in parte grazie alle tecnologie trasferite con l’F-35.

Possiamo uscire? Il programma fallirà?

A questo punto, bisogna capire se l’Italia può uscire dal programma e quanto costerebbe la sua uscita. Il MoU citato prima (pagina 82) non prevede penali esplicite di uscita. Ciò non significa che la nostra eventuale uscita sarebbe eventualmente economica. Infatti, l’accordo sancisce che il contraente uscente dovrà sostenere tutti i costi della sua uscita e quelli che gli altri membri del consorzio dovranno sostenere per via di questa scelta. Ci vorrebbero dei dati a proposito che magari l’on. Donadi potrebbe fornirci per fare valutazioni più precise, ma temo che le cifre potrebbero essere astronomiche. Si pensi solo alla centro di Cameri, costruito per il programma F-35. L’Italia non solo finirebbe per pagare quel centro da sola, ma dovrebbe poi pagarne uno alternativo agli altri membri del consorzio. O si pensi a tutte le spese legali e manageriali per rinegoziare gli accordi industriali.

L’F-35 è stato pensato in maniera da renderlo indistruttibile dall’interno e dall’esterno. Queste clausole servono proprio ad evitare che dei partner riottosi possano portare il programma al collasso.

La questione parallela riguarda la possibilità che il programma venga cancellato dagli Stati Uniti. La mia opinione personale è che ciò non accadrà. I manager di Lockheed Martin, infatti, come hanno pensato ad un accordo industriale a livello internazionale che desse abbastanza incentivi da entrare (contratti) e disincentivi da uscire (i costi di cui sopra), hanno ingegnato una struttura interna tale da proteggerlo dalle bizze della politica. Come? Legando 3/4 del Congresso americano al programma. La produzione dell’F-35 coinvolge infatti una quarantina di Stati Americani, centinaia di migliaia di persone, migliaia di aziende. Quale membro del Congresso andrebbe a votare contro un programma che crea occupazione anche nella sua zona elettorale?

Considerazioni finali

Tutto bene, dunque? Dipende. L’F-35 sarà il programma più avanzato al mondo nel suo comparto. Per molti, sarà l’ultimo aereo da combattimento con pilota. Dopo ci saranno solo i droni. Come ho scritto due anni fa, però, non è perfetto.

La mia modesta opinione è che l’F-35 non sia il problema principale delle nostre Forze Armate. I problemi sono altri due, precisamente:

1) Tra il 65% e il 75% del nostro Bilancio della Difesa finisce in pensioni e stipendi. È una cifra intollerabile.

2) L’industria italiana (ed europea) della difesa è ancora troppo poco consolidata, specie a livello navale e terrestre ma anche nel campo aerospaziale.

Per quanto mi riguarda, prima di tagliare dei programmi, io procederei tagliando del personale. Quelle cifre, onestamente, gridano vendetta, specie se paragonate a livello internazionale. Ciò libererebbe enormi risorse che potrebbero essere divise tra nuovi investimenti e risparmi. Il secondo passaggio deve essere un consolidamento dell’industria europea. Ciò genererebbe altri risparmi. Si noti che anche in questo caso, consolidamento significa principalmente riduzione di forza lavoro (e di aziende, in secondo luogo). Fatti questi due passi, si può discutere con le Forze Armate e vedere se e dove si può tagliare.

Stante il fatto che abbiamo bisogno di un programma di attacco al suolo, le alternative possibili sono principalmente due:

1) Tagliare l’F-35 e sostituirlo provvisoriamente con la tranche 3 dell’Eurofighter (quella ottimizzata per l’attacco al suolo). Intanto si arriverebbe alla fine del decennio e poi si può vedere cosa fare. Poiché la Tranche 3 è stata tagliata, i governi europei sembrano aver fatto la scelta opposta: salvare l’F-35 per l’Eurofighter. Da un punto di vista militare e industriale la scelta ha molto più senso, in quanto l’Eurofighter è un disegno più vecchio e le sue capacità di attacco al suolo sono più limitate.

2) Ridurre eventualmente gli F-35 e continuare a investire in aerei senza pilota, cercando di rafforzare la nostra base industriale (lo Sky-X/Y di Alenia) così da migliorare le nostre chance di cooperazione internazionale in futuro, specie alla luce del fatto che gli USA su questo campo non sono disponibili a cooperare (per tenersi le loro tecnologie più avanzate), Francia e Regno Unito sono andati da soli, mentre la Germania e la Spagna, se non riescono a tirare nella loro barca la Francia, finiranno con la Turchia.

Breve bibliografia

Qua di seguito riporto qualche studio sull’F-35, per chi volesse approfondire.

James Hasik, “Exquisite capabilities, Part II: Why the F-35 is looking a lot like the F-22 these days,” Defense-Industrial Research Memorandum #2011-04, 12 August 2011.

Ethan B. Kapstein, “Capturing Forstress Europe: International Cooperation and the Joint Strike Fighter,” Survival, Vol. 46, No. 3 (Autumn 2004).

Keith Hayward, The F-35 Lighning II: Potential Market 2007-2030 (London: RAS, 2007).

Michele Nones, Giovanni Gasparini e Alessandro Marrone, “L’F-35 Joint Fight Striker e l’Europa,” Quaderni IAI, No. 31 (Autunno 2008).

Hélène Masson, Le Royame-Uni et le programme JSF/F-35: un partenariat au gout amer (Paris: FRS, 2006).

Hélène Masson, Le programme JSF/F-35 e le prix du pragmatism (Paris: FRS, 2004).

Ivor Evans, “F-35 Joint Strike Fighter: More than One Pretty Face,” RUSI Defence Systems, Summer 2004.

Jeremiah Gertler, The F-35 Joint Strike Fighter (JSF) Program: Background and Issues for Congress (Washington, DC: RCS, 2011).

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