Una manovra d’emergenza, dopo tre anni persi. Ora riforme per la crescita

di Mario Seminerio – Libertiamo

La manovra licenziata ieri dal consiglio dei ministri, dopo un weekend trascorso a informare (e non a consultare) partiti e parti sociali, appare la pesantissima riedizione di quella varata da Giuliano Amato nel 1992. Come allora, e più di allora, c’è una situazione di emergenza, che oggi è persino esistenziale, a causa della crisi dell’Eurozona e dei tragici errori e deficit di leadership che ne hanno costellato l’esistenza negli ultimi tre anni.

Sul piano delle misure, la manovra del governo Monti di fatto è in via preponderante una patrimoniale ad ampio spettro (immobiliare e mobiliare, attraverso l’Ici-Imu e l’azione sull’imposta di bollo per i depositi titoli ed altre attività finanziarie) finalizzata tanto a coprire il tentativo di pareggio di bilancio nel 2013 quanto ad evitare di fare scattare la “clausola di salvaguardia” che avrebbe tagliato in modo lineare le agevolazioni fiscali, con un impatto più marcatamente regressivo.

Il resto delle risorse recuperate (per usare un delicato eufemismo) proviene dalla spesa previdenziale e dall’ennesima stretta sui trasferimenti agli enti locali, che continueranno a sbattere il naso contro il patto di stabilità interno, restando impossibilitati ad impiegare eventuali avanzi di gestione, malgrado lunghi anni di propaganda e penultimatum leghisti, nella vita precedente. La morale che si può trarre, da questa manovra e dalle condizioni che l’hanno prodotta, è che il tempo ha giocato ancora una volta contro il nostro paese, incapace di riformare in tempo di pace e a cercare di salvarsi sotto le bombe di questo tempo di euro-guerra. Di qui la collezione di misure che, pur “strutturali” (nel senso di formalmente permanenti e non una tantum), incidono in modo preponderante dal versante delle entrate, come tende ad accadere in situazioni di emergenza. Ma ci sono anche rilevanti responsabilità politiche, e quelle non sono certo in capo al governo Monti.

Epitome di tali responsabilità politiche è la revisione delle modalità impositive sul deposito titoli. Come si ricorderà, il precedente esecutivo aveva contabilizzato, dal bollo sui titoli, entrate per ben 9 miliardi di euro in un triennio. Importo palesemente irrealistico, soprattutto dopo che il governo aveva previsto innumerevoli eccezioni al calcolo della consistenza del dossier titoli, escludendo ad esempio gestioni patrimoniali e fondi comuni, nel più classico esempio di elusione fiscale all’italiana. Superfluo ma non troppo ricordare che questo sarebbe stato un enorme buco di bilancio, in aggiunta a quelli creati dalla recessione. Solo un “piccolo” esempio del modus operandi del precedente esecutivo che, anche quando si è trovato a dover agire sotto il peso dell’emergenza, è riuscito ogni volta ad annacquare le misure originariamente previste, di fatto creando dei saldi finti ed accrescendo i sospetti dei mercati.

La triste realtà è che oggi non c’è tempo per interventi ragionati sulle grandi dinamiche di spesa diverse da quella previdenziale, a meno di inviare la lettera di licenziamento ad alcuni milioni di dipendenti pubblici o tagliare d’imperio il valore nominale delle pensioni già erogate. E questo ci porta alla morale politica di questa manovra. Siamo arrivati a questo punto per responsabilità determinante del precedente esecutivo, che in oltre tre anni ha rifiutato di mettere mano a riforme che avrebbero potuto piegare le dinamiche di spesa, oltre che innalzare il potenziale di crescita del paese. Salvo sciacquarsi la bocca con la sempiterna promessa della mitologica spending review, ormai divenuta uno degli obbligati topoi della politica italiana, dopo quoziente familiare ed asili nido.

Ora è arrivato l’esattore, nelle fattezze del destino cinico e baro, e non possiamo pensare di attuare in pochi giorni quanto non fatto per un triennio. Sarebbe almeno un decennio, in realtà, ma non sottilizziamo. La realtà è che il complesso di interventi annunciati ieri rappresenta, al netto della situazione drammatica che il paese sta vivendo, il tentativo di ridurre il peso della fiscalità sui fattori produttivi (vedi, tra l’altro, la defiscalizzazione Irap) spostandolo sui patrimoni. Che è poi l’asse portante del famoso e negletto manifesto propagandistico del berluscon-tremontismo. Da oggi sappiamo che un Libro Bianco non è un pranzo di gala.

L’aspetto più tragicomico di questa angosciante vicenda sono e saranno i commenti dei nostalgici dell’Età dell’Oro berlusconiana. Quella in cui si aumentava la pressione fiscale ogni anno ma “senza mettere le mani in tasca agli italiani”, ed il popolo poteva continuare a sognare la Rivoluzione Liberale, sempre prossima ad entrare in stazione tra il garrire di bandiere, mentre la scomparsa della crescita era sempre colpa di qualche frenatore antipatriottico, e comunque ne saremmo usciti meglio di altri perché “siamo ricchi”, come effettivamente dimostra questo nuovo prelievo immobiliare agli steroidi. Almeno in qualcosa il governo Berlusconi ci aveva preso, in effetti.

Dove andiamo, quindi, da qui? E’ certamente positivo l’inserimento nella manovra di elementi di liberalizzazione dei mercati quali l’intervento su farmacie e parafarmacie, ad esempio. Così come i primi interventi di riduzione dei costi della politica. Ma sarebbe utile che il governo Monti, dopo aver messo in sicurezza i conti pubblici (a Dio e Schaeuble piacendo) si focalizzasse sulle riforme di struttura vere, puntando ad aumentare la crescita potenziale e ridurre la spesa, utilizzando risparmi di un settore pubblico ristrutturato e recupero di evasione fiscale per ridurre progressivamente la pressione fiscale in un orizzonte pluriennale. Diversamente, anche nell’ipotesi di utilizzo del bazooka da parte della Bce e di (improbabile) lieto fine per l’Eurozona, ci ritroveremo con un paese che a malapena galleggia quando gli altri crescono, soffocato da una pressione fiscale che porterà fatalmente a fenomeni di estremizzazione e disgregazione. E, conoscendoci, riusciremo pure a sospirare su “quando c’erano Loro, caro lei…”

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