di Mario Seminerio – Il Tempo
La Banca centrale europea ha deciso ieri di tagliare il tasso chiave di politica monetaria di un quarto di punto percentuale, all’1,25 per cento. La decisione, pur se ovviamente collegiale, segna l’inizio dell’impronta di Mario Draghi alla guida dell’istituto di emissione nel momento più cupo della storia dell’Unione europea, divorata dalle proprie contraddizioni e da una costruzione comunitaria drammaticamente sghemba.
Le condizioni per un taglio dei tassi ufficiali erano pressoché mature già durante l’ultima riunione della Bce, l’ultima guidata da Jean-Claude Trichet, ma è toccato a Draghi prendere atto che l’economia dell’Eurozona sta dirigendosi verso quelle che sono state definite condizioni di “lieve recessione”, presumibilmente già da quest’ultimo trimestre dell’anno. Draghi ha spiegato, in conferenza stampa, che l’inflazione è destinata a flettere nelle prossime settimane, e che il rallentamento congiunturale amplierà il buco di attività economica rispetto al potenziale.
In effetti, già oggi gli aggregati monetari espressi al netto dell’inflazione mostrano una contrazione, ed il rischio di una stretta creditizia è sempre più concreto, a causa del manifesta malfunzionamento del sistema finanziario europeo, in un contesto in cui un elevato numero di banche sono dipendenti dal finanziamento della stessa Bce, in attesa dell’avvio di una nuova stagione di ricapitalizzazioni, per reggere l’onda d’urto di quello che è di fatto il default della Grecia, oltre che della recessione sempre più imminente in Eurozona.
Draghi ed il consiglio direttivo della Bce hanno preso quindi atto della presenza di condizioni monetarie che nelle ultime settimane si sono strette ed hanno agito di conseguenza, ribaltando il ciclo restrittivo di politica monetaria che era stato avviato dalla Bce in primavera, quando ci si era illusi che la ripresa avesse preso un passo decisivo e che si potesse quindi rimuovere condizioni monetarie eccessivamente lasche. Col senno di poi quella decisione appare problematica, anche perché Jean-Claude Trichet non ha mai dissipato i dubbi degli osservatori circa il fatto che la Bce agisse considerando solo l’inflazione complessiva, mentre ad esempio la Fed si basa in misura rilevante sull’inflazione al netto delle componenti volatili del costo di energia ed alimentari, che consente di valutare quanta parte della pressione inflattiva sta effettivamente mettendo radici nel sistema economico.
Draghi ieri ha ribadito quello che tutti sappiamo: la Bce non ha mandato di prestatore di ultima istanza. Quello non è nei trattati. Questo è il problema dell’Eurozona, oggi. La mancanza di un prestatore di ultima istanza determina che i paesi dell’Eurozona siano non tanto emittenti quanto semplici utilizzatori dell’euro. Il timore di creare condizioni di azzardo morale, in cui i paesi fiscalmente indisciplinati ottengono dalla Bce un pasto gratis, ha creato questo assetto istituzionale che oggi, al venir meno dell’appetito per i titoli di stato di alcuni paesi (tra cui il nostro), rischia di vanificare ogni tentativo di risanamento e di far cadere nel burrone la cordata dei diciassette paesi dell’Eurozona, nel momento in cui la crescita sta venendo meno anche per la locomotiva tedesca. Il taglio dei tassi di ieri è destinato peraltro a non trasmettersi all’economia reale, perché le tubazioni dell’economia sono ostruite da diffidenza e paura. I festeggiamenti di borsa rischiano quindi di essere del tutto effimeri.
L’auspicio è che Super Mario possa contribuire alla maturazione della consapevolezza di avere una banca centrale effettivamente integrata in quella che non può più permettersi di essere solo un’unione valutaria. Diversamente, il sogno europeo diverrà il nostro peggiore incubo.
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