di Mario Seminerio – Libertiamo
La proposta del senatore Nicola Rossi, presidente dell’Istituto Bruno Leoni (fatta propria dal Terzo Polo nei due rami del parlamento) di costituzionalizzare il pareggio di bilancio, è interessante, non foss’altro che per il fascino dell’automatismo che innegabilmente esercita. Proviamo ad analizzarla, anche comparativamente ad esperienze estere, ed a capire se e quali vulnerabilità presenta.
Secondo l’articolato presentato da Rossi, l’intervento prevede la modifica di quattro articoli della Costituzione. Il 23, a livello di principio generale (quello della “equità intergenerazionale”), il celebre 81 (quello che, nelle ottime intenzioni dei Padri Costituenti, avrebbe dovuto darci il pareggio di bilancio), il 117 ed il 119, per imporre al decentramento locale (sia esso federale o meno) gli stessi vincoli.
Di positivo, e razionale, nella proposta di legge costituzionale, c’è senz’altro il fatto che il pareggio di bilancio è corretto per il ciclo economico. Se vi fosse obbligo di pareggio per singolo esercizio, infatti, avremmo una norma ferocemente pro-ciclica, che verrebbe disapplicata alla prima recessione. Il nuovo comma 6 dell’articolo 81, inoltre, prevede un tetto massimo del rapporto di spesa sul Pil, fissato generosamente al 45 per cento. Anche qui, per evitare che il tetto sia pro-ciclico (ve lo immaginate che accadrebbe durante una recessione, quando il rapporto spesa pubblica-Pil tende ad espandersi spontaneamente?), si prevede un rientro al target del 45 per cento nei tre anni successivi. C’è da dire che questa è una misura “keynesiana”, visto che lo stesso Lord Keynes propugnava il pareggio di bilancio nell’arco di un intero ciclo economico.
E misure keynesiane di stimolo, quali il ricorso all’indebitamento (auspicabilmente solo per finanziare la spesa in conto capitale), dovrebbero essere approvate a maggioranza qualificata dei due terzi del parlamento, corresponsabilizzando in tal modo maggioranza ed opposizione. Stessa maggioranza qualificata dei due terzi è prevista per aumenti di spesa oltre il tetto del 45 per cento, finanziati da aumenti di entrate (il cosiddetto “tassa e spendi”), con previsione di sostituzione delle maggiori entrate con debito pubblico e, entro cinque anni, presentazione di piano di ammortamento del debito aggiuntivo.
Di fatto, la proposta di legge costituzionale mira a porre un vincolo ma non una camicia di forza, in modo intelligente e non dogmatico. Non bisogna tuttavia dimenticare che le leggi sono fatte dagli uomini ad uso degli uomini, e dai medesimi vengono interpretate e (spesso) disapplicate. Basti pensare proprio all’articolo 81 della Costituzione. Se oggi serve un restyling non è per effetto del trascorrere del tempo, ma proprio per le “interpretazioni” che dell’articolo medesimo sono state date dal legislatore nel corso degli anni.
Non ci sarà garanzia di successo neppure per la proposta di Nicola Rossi, quindi, se dietro la medesima non si porrà un drastico cambio culturale di elettori ed eletti. All’estero, la stessa fine ingloriosa del nostro articolo 81 è stata fatta, mutatis mutandis, dalla legge (ordinaria) francese sullo “scudo fiscale“, ad esempio. In Germania, dove la volontà di elettori ed eletti non è “mediterranea”, si è stabilito, con la legge costituzionale “frena-debito” (Schuldenbremse) del 2009 che dal 2016 lo stato federale non possa avere deficit di bilancio eccedenti lo 0,35 per cento del Pil (mentre dal 2020 i Laender avranno obbligo di pareggio), il che sembra davvero draconiano oltre che assai poco flessibile, visto che il pareggio è fissato in base annuale e l’unica attenuazione della pro-ciclicità che tale legge implica è la previsione di “calamità naturali” e “gravi crisi economiche”.
A ben vedere la proposta di Rossi, che è la versione italianizzata dell’emendamento costituzionale di pareggio del bilancio proposto dai Repubblicani americani (loro con stessa maggioranza qualificata dei due terzi per deroghe, e tetto di spesa pubblica federale al 18 per cento del Pil), poggia su una grandezza, il Pil, che non ha alcun valore legale, e che pertanto è manipolabile. Volete sapere come? Semplice: ipotizzate di ordinare all’Istat o a chi per esso (dopo approfonditi studi, s’intende), di aumentare la dimensione del Pil per riflettere un maggiore peso del “sommerso”, oppure il contributo dell’economia di autoproduzione domestica (casalinghe e nonni, in soldoni). Con un tratto di penna, il Pil cresce e con esso il suo 45 per cento di spese massime, rispettando le lettera del dettato costituzionale emendato.
Di certo, se proprio si deve costituzionalizzare qualcosa, meglio il pareggio di bilancio che la singolare affermazione (ché principio pare troppo) secondo il quale “è tutto permesso tranne ciò che è vietato”, con la quale il governo Berlusconi vorrebbe modificare l’articolo 41 della Costituzione. Modifica del tutto inutile, vuoi perché fa parte della prima parte della Costituzione, e quindi non ha ricadute operative immediate, sia perché (ad esempio) per intervenire sugli ordini professionali pare non serva una legge costituzionale.
Ma questo desiderio di mettere il morso all’attività dei legislatori è comunque interessante. Se il ddl costituzionale di Rossi servirà a costruire una cultura del rigore di bilancio e di “equità intergenerazionale”, ben venga. Ma se ora serve soprattutto disattivare, almeno pro-tempore, la propensione all’espansione inarrestabile della spesa come risultante di una strategia neocorporativa di “acquisto” (in ogni senso) del consenso sociale? Se è così (e lo è), perché allora non riflettere sulla soluzione che a questo esito giunge per definizione, un governo tecnico, magari di unità nazionale? Se le cose andranno come temiamo, ad un certo momento questa non sarà più una libera scelta.
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