di Mario Seminerio – Linkiesta
Il governo è stabile, dice il Cavaliere: come la linea di elettroencefalogramma di un candidato all’espianto di organi. I mercati, di errore in errore, ci spingeranno un passo oltre il baratro. Il paese ha ricevuto una pesante eredità dal passato, risponde il premier. Dimenticando che quella eredità si chiama Silvio Berlusconi.
Le comunicazioni alle Camere del presidente del Consiglio, ieri, sono state l’epitome non solo di una leadership, vera o presunta ma ormai al tramonto, ma di una intera classe politica. Il premier, dopo un ostinato silenzio durato giorni, sotto i colpi di mortaio dei mercati, ha deciso di andare in aula, rendendosi addirittura protagonista di una gaffe, quella delle comunicazioni a mercati aperti. Che forse gaffe non sarebbe stata, se non si fosse deciso in un secondo momento di rinviare le comunicazioni a Montecitorio dapprima alle 17 e in seguito alle 17.30, forse dopo attenta verifica degli orari di Borsa.
Non male come antipasto, per il governo che, nelle parole del premier e del segretario del partito del premier, Angelino Alfano, ha di fatto comunicato al mondo che i mercati si sbagliano. Cosa possibilissima, peraltro, ma temiamo per difetto.
Quanto alle comunicazioni di Berlusconi, il solito mantra del paese operoso, fortemente patrimonializzato (questo sta diventando un vero e proprio memento mori, per i contribuenti italiani), dalle banche solidissime, che hanno superato «brillantemente» gli stress test (non è proprio così, ma la fiction esige i suoi tempi e modi). C’è bisogno di stabilità, ha detto il premier, che evidentemente è un esperto in imbalsamazioni ed ha ormai assunto a proprio modello i faraoni egizi. Perché chiunque osi anche solo lontanamente ipotizzare che un governo “democraticamente eletto” possa pensare di farsi da parte prima della scadenza naturale di una legislatura, per evidente incapacità a governare gli eventi (qualcuno ha detto Zapatero?), è di certo un sovversivo. I governi devono arrivare alla scadenza quinquennale, anche se ci arrivano morti ed emanando un terribile fetore.
Il premier ha ricordato il fantomatico “statuto dei lavori”, e lo sblocco di opere per il Mezzogiorno, inducendo un applauso da spellarsi le mani da parti di quei gruppi localistici meridionali che hanno deciso di rappresentare la versione caricaturale di un partito che è ormai divenuto caricatura di se stesso, canottiere del leader incluse: la Lega Nord. Berlusconi ha anche evocato il solito tavolo di concertazione con le parti sociali, le stesse che nei giorni scorsi hanno scritto una bella letterina a Babbo Natale chiedendo di “fare qualcosa”; il che di solito, in questo paese, significa che è fondamentale cercare di intercettare per sé brandelli di una spesa pubblica che non regge più il carico.
Siamo stati fortunati, a questo giro: Berlusconi non ha parlato del piano-casa, quello della “stanza del figlio”, né ha ribadito la necessità di scolpire la libertà economica nell’articolo 41 della Costituzione, come ebbe a fare a febbraio scorso, consentendo ai giornali cartacei di offrire il proprio contributo alla deforestazione. In pochi, ormai, ricordano le due aliquote Irpef, al 23 e 33 per cento, del 1994. Un po’ come i “ragazzi del ’99”: una generazione si estingue, chi terrà accesa la fiaccola del ricordo dello spirito del ’94, così tragicamente mutato in quello del 1992, denti di Giuliano Amato e patrimoniale inclusa? Per fortuna ci sono le nuove leve, quelle che stanno crescendo con la triade delle aliquote Irpef 20-30-40 per cento. Che non si realizzeranno, perché le risorse per finanziare quella rimodulazione finiranno tutte a tappare i buchi che si aprono spontaneamente nei conti pubblici, quando un paese non cresce, malgrado gli editoriali del professor Marco Fortis dimostrino che la forza di gravità è negativa e che quindi, aprendo la mano, un oggetto in realtà non cade ma sale in cielo. Ma pazienza, basta la salute.
Si diceva del teatrino della crisi, plasticamente rappresentato da tutti i comprimari del premier, nelle dichiarazioni successive. Pierluigi Bersani si dimostra al solito il migliore nelle diagnosi (“le banche soffrono per la fragilità di imprese che vedono crollare i fatturati, e quindi i flussi di cassa”), ma che, al dunque, offre ricette stantie e ammuffite, portate avanti da quello Stefano Fassina che sembra incastonato nell’ambra dei ruggenti anni Settanta. Perché il Pd è sempre l’erede della doppiezza togliattiana, o quello dell’acqua pubblica, dopo la privatizzazione della gestione delle reti idriche. Anche Pierferdinando Casini, che usa il termine “serietà” ormai come un mantra, si è detto disposto a votare un’eventuale anticipazione del cadavere della “delega fiscale”, quella che sarebbe la più grande devastazione alle tasche degli italiani da molti decenni a questa parte. Ma è comprensibile, in questo clima parlamentare che ricorda ogni giorno di più il volo di calabroni impazziti, che si danno il cinque per la rapidità con cui è stata approvata una manovra demenziale, regressiva ed emergenziale, che come tale provoca più danni di quanti ne risolva. Niente piani, siamo italiani.
L’aspetto più beffardo di questa crisi alla Alberto Sordi (per qualità del dibattito pubblico) ma alla Shining di Jack Nicholson (per gli esiti ultimi che minaccia), è che il governo italiano non è neppure direttamente imputabile per quanto sta accadendo oggi, anche se lo è certamente per essersi disinteressato di una cosa chiamata crescita, nei tre anni di legislatura finora trascorsi, impegnato com’è stato a ficcare la testa nella sabbia della giustizia penale, o nei Sacconi di una disoccupazione “più bassa della media europea”, al netto di un utilizzo impressionante degli ammortizzatori sociali, a pié di lista, per coprire una drammatica perdita di competitività, come dimostra l’evoluzione della bilancia commerciale.
Ma non c’è problema: il governo è stabile, come la linea di elettroencefalogramma di un candidato all’espianto di organi, hic manebimus optime. E i mercati, di errore in errore, ci spingeranno un passo oltre il baratro. Il paese ha ricevuto una pesante eredità dal passato, risponde Berlusconi anche a chi gli chiede l’ora. Dimenticando che quella eredità si chiama Silvio Berlusconi.
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