di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano
L’esito dell’accordo tra Barack Obama ed i Repubblicani, che ha evitato agli Stati Uniti l’ignominia e le turbolenze di un default tecnico, è destinato a cambiare lo scenario economico, americano e globale, in modo sostanziale, e non certo in meglio.
Come noto, l’accordo verte in misura esclusiva su tagli di spese, senza alcun intervento di aumento delle imposte. Obama pare aver ceduto su tutta la linea all’aggressivo atteggiamento negoziale dei Repubblicani, egemonizzati dall’estremismo (e dalla assai scarsa comprensione delle reali dinamiche economiche) dei Tea Parties. E’ vero che, in caso di mancato accordo tra i componenti della commissione bipartisan (che, entro il Thanksgiving dovrà fornire indicazioni di rientro del deficit per ulteriori 1500 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni, in aggiunta ai 900 miliardi che verranno tagliati subito), si determinerà una tagliola che interverrà in automatico anche su voci di spesa, quali la Difesa, da sempre molto care ai Repubblicani, ma l’insieme delle misure si dimostra del tutto squilibrato e, soprattutto, suscettibile di causare rilevanti danni ad una congiuntura già in via di indebolimento, forse non transitorio.
La pressione fiscale federale, a fine 2010, era sotto il 15 per cento del Pil, ai minimi degli ultimi sessant’anni. L’incidenza delle spese federali sul Pil è superiore alla media storica di lungo periodo soprattutto per effetto dell’impressionante vuoto di attività causato dalla Grande Recessione. Le misure approvate a fine 2010 da un Obama già anatra azzoppata, e basate per quattro quinti su tagli di imposte, si sono dimostrate prive di impatto reale sull’economia. Lo stesso stimolo di poco meno di 800 miliardi, approvato a inizio del mandato di Obama, è nato sottodimensionato per la volontà del presidente di mantenere quell’atteggiamento centrista e di moderazione fiscale che gli è valso i voti degli indipendenti.
Obama non è mai stato un radical; anzi, spesso è apparso come un Repubblicano moderato, molto lontano dalla vulgata di cripto-socialista che la destra americana gli ha cucito addosso. Obama non ha ritenuto di dimensionare il primo stimolo secondo quanto i suoi consiglieri dell’epoca (prima tra tutti Christina Romer) gli avevano suggerito, e nulla è stato fatto, ad esempio, per realizzare un piano straordinario di lavori pubblici e di ammodernamento e manutenzione infrastrutturale che, oltre ad essere “a termine” e quindi del tutto reversibile, avrebbe sostenuto la domanda aggregata e sorretto la produttività di lungo periodo.
Che accadrà, ora? Il dato su cui ragionare è che stiamo per avere, negli Usa, una delle maggiori strette fiscali degli ultimi decenni, e questa stretta giunge in corrispondenza di un indebolimento congiunturale causato dal progressivo venir meno degli impulsi espansivi dei precedenti stimoli. Non è un caso che il mercato azionario americano sia in ripiegamento vistoso da oltre una settimana, scontando proprio lo scenario di stretta fiscale che segue l’accordo sul debito. Allo stesso modo, l’andamento dei tassi di mercato sui titoli del Tesoro statunitense, è in caduta libera da settimane, al prendere corpo dei timori di un “decennio perduto” anche per l’economia americana.
Per questo, stupiscono alcuni commenti alla crisi ed ai suoi ultimi sviluppi. Leggere di “misure considerate non sufficienti dai mercati”, per spiegare i ribassi di questi giorni, è un assoluto non senso. I mercati hanno capito perfettamente, invece: hanno capito che i rischi di ricaduta in recessione sono drammaticamente aumentati, e i Treasury restano un rifugio sicuro, malgrado i rischi di declassamento da parte delle agenzie di rating, con buona pace delle visioni oniriche dei Repubblicani che, con Paul Ryan in testa, proclamano che serve un taglio di spesa “per togliere pressione ai tassi d’interesse”, proprio mentre questi ultimi sono solidamente incamminati su un percorso “giapponese”.
Di questa crisi è stata drammaticamente (e tragicamente) sbagliata la diagnosi: quando le famiglie e le imprese risparmiano per ripagare i debiti, il settore pubblico non può puntare al pareggio di bilancio, perché ciò finisce col produrre devastazioni e ricadute in depressione. Questo non è keynesismo, ma una banale analisi dei flussi finanziari settoriali dell’economia.
Prepariamoci a ballare, a meno dell’ennesimo intervento “salvifico” della Fed, il metadone di un’economia profondamente malsana e ben lungi dal risanamento.
Scopri di più da Epistemes
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.