Gheddafi si, i francesi no

Così il governo, contro l’Italia, difende l’italianità delle imprese

di Mario Seminerio – Libertiamo

Dopo l’acquisto di circa il 29 per cento di Parmalat da parte dei francesi di Lactalis, è partita la consueta geremiade di lamentazioni da parte di politici e sindacalisti. Siamo improvvisamente diventati un paese strategico, in ogni settore. E mentre Giulio Tremonti studia come farsi mandare a stendere dalla Ue nel tentativo di ostacolare acquisizioni estere di imprese italiane, cerchiamo di capire se le cose stanno esattamente come ci sono state presentate.

Di Parmalat sappiamo che ha in pancia un tesoretto di 1,4 miliardi di euro, frutto delle transazioni con le banche d’affari coinvolte nella truffa della premiata ditta Tanzi & Tonna. Il salvatore di Collecchio, Enrico Bondi, non ha finora proceduto ad acquisizioni né a distribuire un dividendo straordinario. Da qui l’interesse dei fondi esteri cosiddetti attivisti e del produttore francese Lactalis. Quest’ultimo ha dapprima rastrellato sul mercato una quota, tra acquisti diretti ed equity swap, pari a circa il 15 per cento di Parmalat, e si è poi accordato per rilevare un ulteriore 15 per cento dai tre fondi esteri (Zenit, Skagen e Mackenzie). In tal modo Lactalis diviene il dominus di Parmalat, che è una public company, ha i numeri per nominare la maggioranza del Cda, all’assemblea degli azionisti del 12, 13 e 14 aprile prossimi e non deve (per ora) lanciare un’Opa sull’intero capitale della società agroalimentare italiana.

La reazione del governo, anche dopo la cessione di Bulgari ai francesi di LVMH e il tentativo di Edf di assumere il controllo di Edison, oggi gestita paritariamente con A2A, è stata di tentare di frenare le acquisizioni estere (segnatamente, francesi) di imprese italiane. Non si sa perché, non si capisce come. Sappiamo che il governo italiano lamenta la scarsa reciprocità francese ai tentativi di acquisizione italiana. Sarà vero? Al momento sappiamo che Trenitalia, il cui a.d. Mauro Moretti si era tanto lamentato di non riuscire ad accedere al mercato del trasporto ferroviario francese, ha realizzato una partnership paritetica (di diritto francese) con Veolia per “competere nel mercato europeo dell’Alta Velocità, in quello dei servizi internazionali di lunga distanza o transfrontalieri e nei servizi regionali”. Non solo: osservando i dati citati su lavoce.info da Fabiano Schivardi, si nota che il mercato francese, in termini di quota d’imprese a controllo estero, è incomparabilmente più aperto di quello italiano, con buona pace della leggenda, alimentata dalla manomorta politico-sindacale, sulla “colonizzazione” del nostro paese.

Peraltro, Lactalis non è esattamente una sconosciuta nel nostro paese, dove già controlla marchi storici come Galbani, Invernizzi, Locatelli, Cademartori. Una domanda agli splafonatori padani di quote latte: chi rifornisce di materia prima questi produttori italiani di nascita e francesi di adozione?

E quindi? Quindi i problemi ed i termini della questione stanno altrove. Più precisamente, nel fatto che i francesi hanno un sistema-paese, nel bene o nel male, e l’Italia no. Che i francesi hanno i capitali, ed un sistema creditizio che riesce ad orchestrarli e l’Italia no, indaffarata com’è nella costruzione e nella difesa ad oltranza di scatole cinesi che servono ad estrarre benefici politici e a fare lentamente avvizzire il sistema produttivo. Il ridotto tasso di internazionalizzazione delle nostre imprese testimonia della sciagurata convergenza tra interessi degli imprenditori “familiari” (il ricorso al credito bancario per evitare l’ingresso di nuovi soci, che finiscono col subentrare al momento della cessione d’impresa), ed il tradizionale brokeraggio politico-sindacale.

Serve a qualcosa mettere barriere alle acquisizioni estere di imprese italiane? Si, serve a determinare lo scadimento del già generalmente limitato potenziale di sviluppo ed internazionalizzazione delle nostre imprese, ed a mantenerle in condizioni di fragilità finanziaria. Prescindendo dal caso di Parmalat, che è uno di ridotta creazione di valore. Come si muove il governo italiano, in questo contesto? Da manuale di ciò che non andrebbe fatto: dapprima proclamando di voler legiferare per tutelare un non meglio identificato “interesse nazionale”. Celebre la frase di Tremonti “stiamo facendo shopping giuridico”, riferendosi a non meglio precisate (né comprese) normative estere.

Poi abbiamo avuto l’iniziativa dell’Agenzia delle Entrate, che ha dichiarato di voler “accendere un faro” sulla cessione di partecipazioni Parmalat a Lactalis e Bulgari a LVMH per verificare “il rispetto delle disposizioni normative che prevedono, al ricorrere di determinati presupposti, la tassazione in Italia dei redditi derivanti dalle predette operazioni”. Tutto sacrosanto, s’intende, ma la tempistica di questi annunci non rende esattamente il nostro paese un paradiso della certezza del diritto. Abbiamo anche orecchiato l’ipotesi di una sterilizzazione dei diritti di voto esteri nelle compagnie italiane che sarebbe la certificazione, (dopo la disposizione “ad aziendam” del famigerato Milleproroghe che limita al 50 per cento degli utili la distribuzione di dividendi di Parmalat) che l’Italia è l’ultimo vero paese socialista rimasto al mondo. Singolare questo attivismo “strategico” da parte del paese che proprio non voleva saperne di congelare gli asset libici investiti da noi.

Dopo aver vissuto quel capolavoro di “operazione di sistema” chiamato Alitalia, siamo fiduciosi che l’elevato grado di inerzia che caratterizza la politica e l’esecutivo italiani possa impedire il sorgere di nuove barbarie oligarchico-statalistiche.

Scopri di più da Epistemes

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continue reading