L’Italia e il processo di formazione degli stati nazionali

di Mauro Gilli

Il centocinquantesimo anniversario della fondazione dell’Italia si avvicina. In questo clima, è inevitabile che alcuni politici, probabilmente in cerca di attenzioni che altrimenti non potrebbero ricevere, usino questo evento per fare un po’ di sana quanto inutile polemica. Poiché le stupidaggini, se ripetute, finiscono per essere poi prese per verità, è bene fare chiarezza. Avevo già trattato l’unificazione italiana in questo precedente articolo. Qui voglio aggiungere alcune ulteriori considerazioni.

Ho letto numerosi interventi sul tema. Tra questi, non ho trovato un solo autore che lo abbia contestualizzato nel più grande processo di  formazione degli Stati nazionali in Europa. Questa contestualizzazione è importante. E visto che il dibattito intellettuale italiano è ad un livello così misero e sbracato, anche tra i “soloni” che popolano i salotti buoni, spiegherò anche a loro quegli aspetti che evidentemente sono sfuggiti o non hanno capito.

Punto primo. Nell’anno  990, c’erano più di 500 entità politiche sul continente europeo. Dopo 500 anni, nel 1490, ve n’erano circa 200. Dopo altri 500 anni, nel 1992, ve ne erano solo una trentina. E ad oggi, malgrado i suoi acciacchi, l’Unione Europea mira a ridurre ulteriormente questo numero. Che ciò accada o meno è una questione che qui non ci interessa. Il punto, semplice, è uno: il numero delle entità politiche sul suolo europeo ha subito una drastica riduzione. Cosa spiega questo fenomeno? Cosa spiega questa diminuzione del numero degli attori che “reclamano” il monopolio della capacità di tassare ed imporre leggi?

Questa è la domanda alla quale Charles Tilly – uno dei più importanti studiosi della materia – ha cercato di rispondere nel suo Coercion, Capital, and European States. La risposta è semplice, ma estremamente puntuale. Per usare le parole di Tilly: “The war made the state, and the state made war. Il sistema europeo, caratterizzato dal costante rischio di guerra, ha spinto le unità politiche europee ad aumentare la loro capacità di mobilizzare risorse per la difesa dei propri territori. Ciò, a sua volta, ha portato a due fenomeni. Da una parte, i territori meno capaci di mobilizzare risorse per la loro difesa sono stati piano piano inglobati da quelli più capaci. Dall’altra, questi ultimi hanno sviluppato grandi burocrazie centrali per la raccolta delle tasse, aumentando così le loro potenzialità belliche (per un contributo recente su questo tema, si guardi questo articolo di Scheve e Stavage; ulteriori riflessioni a proposito possono essere trovate nei seguenti lavori: Perry Anderson, The Lineages of the Absolutist State; Kenneth Waltz, Theory of International Politics; e Joao Resende-Santos, Neorealism, States and the modern Mass Army).

Punto secondo. Perché i territori tedeschi e italiani sono riusciti a resistere a queste pressioni, almeno fino al 1800? Questa è la domanda alla quale ha cercato di rispondere Hendrik Spruyt nel suo The Sovereign State and its Competitors. Secondo Spruyt ci sarebbero due fattori fondamentali. In primo luogo, fino all’introduzione della leva di massa, la difesa di un territorio richiedeva solo denari – le guerre erano combattute da mercenari, e prima ancora, dato il livello tecnologico, da cavalieri. Pertanto, città-stato come Venezia o Brema erano in grado di disporre di forze superiori a quelle della Francia almeno fino al 1600. Unità politiche che erano “ricche di capitale” poterono dunque resistere ai vari tentativi espansionistici, rallentando così il processo di formazione degli stati nazionali in alcune aree del continente europeo. Non è un caso che ciò sia avvenuto in quelle regioni – le città-stato italiane e le città appartenenti alla lega anseatica – che dominarono i commerci fino al 1600.

Punto terzo. Come mai, alla fine, anche l’Italia e la Germania sono state coinvolte dal processo di formazione degli stati nazionali? Vi sono più ragioni: strategiche, politiche ed economiche. Queste tre sono strettamente connesse, ma le tratterò separatamente per ragioni di chiarezza.

Partiamo dai fattori strategici. Dopo l’introduzione della leva di massa da parte di Napoleone, la guerra diventò molto più labor-intensive. E la sicurezza nazionale divenne così strettamente dipendente dalla disponibilità di uomini. Il numero di uomini disponibili dipendeva a sua volta dall’estensione territoriale di una unità politica (con rendimenti di scala decrescenti però, per via del nazionalismo).

Fattori politici. Allo stesso tempo, come il “Concerto Europeo” aveva illustrato, le sorti dell’Europa erano dettate dalle decisioni degli Stati maggiori. Sedersi al tavolo con questi stati era dunque una condizione necessaria per le sorti di un paese, dalla corsa alle colonie all’aumento dei commerci. E per sedersi al tavolo, una qualità era fondamentale: essere uno stato di dimensioni suffientemente grandi.

Fattori economici. Come Friedrich List aveva intuito osservando il processo di industrializzazione americano, i paesi che non si industrializzarono per primi avevano bisogno di promuovere il processo di industrializzazione. Fondamentale per questo obiettivo era la creazione di un mercato interno unico, collegato da infrastrutture (strade e ferrovie), all’interno del quale si usassero le stesse misure, la stessa valuta e la stessa lingua. Da questa prospettiva, l’unificazione italiana assume un’importanza economica significativa. Senza di essa, infatti, il processo di industrializzazione italiano sarebbe stato ritardato ulteriormente.

Quali sono le conclusioni di questo ragionamento?

Prima conclusione. Tutte le speculazioni, sia dei neo-borbonici che dei leghisti, sui gloriosi successi che le loro terre avrebbero raggiunto se non ci fosse stata l’Unità d’Italia sono stupidaggini. Nessuno può sapere come sarebbe andata la storia se l’Italia non fosse stata unificata. Ma se vogliamo proprio speculare, allora dobbiamo pensare seriamente a ciò che sarebbe potuto succedere. Dopo la seconda guerra mondiale, una parte del triveneto sarebbe potuta finire sotto il controllo titino; e l’Emilia-Romagna e la Toscana sarebbero verosimilmente diventate stati comunisti nell’orbita sovietica. Il sud Italia, invece, non avrebbe mai sviluppato istituzioni democratiche. In altre parole, il benessere e la democrazia di cui queste regioni oggi godono sarebbero solo delle illusioni. Con buona pace di chi si lancia in fantasiose analisi storiche.

Seconda conclusione. Il processo di formazione degli stati nazionali in Europa ha avuto costi drammatici per le popolazioni che sono state soggiogate. Ciò è vero per alcune aree della penisola italiana, così come è vero per la Vandea in Francia; per la Catalogna e i Paesi Baschi in Spagna; per il Galles, l’Irlanda e la Scozia in Inghilterra; lo Schleswig-Holstein e altri territori più piccoli in Germania; e per i nativi americani e le isole Hawaii negli Stati Uniti. L’Italia non è dunque un’eccezione. La ricerca della sicurezza territoriale ha spinto gli stati europei ad espandersi, e così a commettere atrocità. Ma per uno di quegli strani paradossi della storia, come hanno spiegato illustri studiosi come McNeil (1 e 2), Diamond, Rosenberg e Birdzell, e Cipolla, è stata proprio questa competizione politica a favorire lo sviluppo di quelle istituzioni e l’adozione di quelle tecniche che hanno posto le basi per la nostra libertà e per il nostro benessere (basti ricordare il ruolo della leva di massa nel favorire l’allargamento del suffragio elettorale). Purtroppo non avremmo la nostra democrazia e la nostra ricchezza, se non ci fossero state anche quelle atrocità. E’ giusto dunque fare una riflessione seria sui costi e sulle sofferenze che il processo di unificazione impose. Ma come ho spiegato in un precedente articolo, questa riflessione non può dimenticare le ricchezze e le libertà che l’unificazione ci ha portato.

Terza e ultima conclusione. Per quanto molti si dilettino nel condannare il processo di unificazione come una scelta anti-storica o sbagliata, il dato di fondo è uno: il processo di aggregazione politica iniziato in Europa nel tardo medio-evo non è stato promosso né da Cavour, né da Mazzini, né da Garibali. Questo fu un processo di lunghissimo raggio dettato da pressioni tecnologiche, politiche, economiche e militari. La diminuzione del numero di entità politiche sul continente europeo ne è la più chiara illustrazione. Pertanto, criticare  l’unificazione italiana è un po’ come criticare la globalizzazione o il cambio delle stagioni. Intellettualmente può essere anche gratificamente, ma è inutile e privo di fondamento logico.

I territori italiani, diversamente da quelli francesi, spagnoli e inglesi, riuscirono a resistere alle pressioni di cui si è parlato sopra per via della loro relativa ricchezza e abbondanza di capitali. Ma con la crescita dei commerci transoceanici, il processo di industrializzazione e l’introduzione della leva di massa, questi territori persero non solo influenza ma anche autonomia politica. L’Unità d’Italia mirava a creare un’entità politica in grado di garantire entrambi.

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