Inflazione da materie prime: rischio per la ripresa globale?

di Mario Seminerio

Il recente andamento delle materie prime ricorda quello del 2008. Il prezzo del petrolio è oggi ai massimi dall’ottobre di quell’anno, intorno ai 100 dollari al barile. I prezzi agricoli mondiali sono tornati al picco di luglio 2008. I prezzi del rame, che da inizio novembre sono balzati del 17 per cento, sono ai massimi di tutti i tempi. I recenti aumenti riflettono i ridotti timori riguardo le prospettive economiche globali, aiutate dalla Federal Reserve, che sta attuando proprio da novembre dello scorso anno il secondo round di easing quantitativo.

Il timore è che violenti rincari dei prezzi delle materie prime possano causare una ricaduta in recessione dell’economia globale. I maggiori prezzi delle materie prime agiscono come una tassa sui consumi, trasferendo reddito da famiglie ed aziende dei paesi che tali materie prime utilizzano ai paesi che le producono. Il prezzo del petrolio ha già spinto il mondo in recessione, negli anni Settanta. La colpa per la recente Grande Recessione globale viene attribuita alla finanza, ma vi sono studi che dimostrano che il rallentamento economico verificatosi tra la fine del 2007 ed il terzo trimestre del 2008 è imputabile al rialzo dei prezzi del greggio.

Nei paesi emergenti, gli alimentari hanno una quota maggiore dell’energia nel paniere dei consumatori, ed il rialzo dei loro prezzi può avere conseguenze disastrose sul piano umano, oltre che economico. In Asia, a inizio 2008, il rialzo dei prezzi del riso ha portato a diffusi moti di piazza e a disperati tentativi da parte di governi di assicurarsi aumenti delle scorte. In dicembre, in India, i prezzi degli alimentari sono cresciuti del 14 per cento, guidati da una fiammata inflazionistica sulle cipolle, ingrediente tipico di tutti i piatti nazionali. In Nord Africa e Medio Oriente, le recenti rivolte di piazza che hanno provocato la caduta del presidente tunisino Ben Ali e l’assalto al potere trentennale dell’egiziano Mubarak sono state innescate da tentativi dei governi di ridurre o azzerare i sussidi su alimentari ed energia.

Oltre a “tassare” i consumatori, i rincari delle materie prime spingono al rialzo l’inflazione. Malgrado i libri di testo suggeriscano che le banche centrali dovrebbero astenersi da interventi in caso di shock dal lato dell’offerta, il timore è che tali rialzi possano innescare effetti differiti più ampi, coinvolgendo le aspettative degli agenti economici. Con l’inflazione oggi sopra la zona di sicurezza della Banca centrale europea (fissata “intorno o poco sotto il 2 per cento” annuo), cresce la pressione per alzare i tassi d’interesse. Finora le banche centrali si sono astenute dall’intervenire, attendendo tagli alla spesa pubblica e considerando il basso grado di utilizzo delle risorse nel dopo-crisi, che riduce le pressioni rialziste sui prezzi (si pensi alla disoccupazione mediamente elevata nei paesi sviluppati), a differenza di quanto accade nei paesi emergenti.

Ma lo sbilancio tra domanda ed offerta di petrolio preoccupa. L’ascesa nei prezzi del petrolio è dovuta a forte domanda e offerta stagnante. Inoltre, i prezzi delle materie prime stanno crescendo in uno degli stadi iniziali del ciclo economico. Si teme che la ripresa della domanda petrolifera statunitense si scontri, sommandosi, a quella della Cina, che sta consumando il 23% di petrolio in più rispetto al 2007, così come il 63% di rame ed il 18% di cotone in più.
La FAO, l’organizzazione alimentare delle Nazioni Unite, segnala che il proprio indice dei prezzi alimentari globali ha superato il massimo storico di tutti i tempi, segnato nel 2008, sia in termini nominali che reali. L’indice dei cerali è cresciuto nel 2010 del 39 per cento. La FAO sollecita i governi a non agire sotto l’impulso del panico, per non aggravare la situazione, ma l’appello è finora caduto nel vuoto. Spaventati dall’ascesa dei prezzi, i governi si affannano a fare incetta di stock di derrate agricole, finché possono, e così facendo spingono i prezzi al rialzo.

La causa immediata del rialzo dei prezzi degli alimentari è stata la peggior siccità in Russia e nella regione del Mar Nero da 130 anni a questa parte, durata abbastanza a lungo da danneggiare le semine ed I raccolti estivi. La Russia ha imposto un divieto di esportazione su grano e cerali. Il problema è stato aggravato da piogge tardive in Canada, dagli effetti della Nina in Argentina e dalla riduzione di suoli coltivabili negli Stati Uniti. Il rapporto tra scorte ed utilizzi del granturco è oggi al 12,8%, prossimo al minimo trentennale, secondo alcune stime. Le cause più profonde della crisi agricola sono note: l’ascesa della popolazione mondiale, l’esaurimento della “Rivoluzione verde”, con la riduzione della resa delle semine; cambiamenti nel regime alimentare in Asia, dove l’ascesa della classe media aumenta il peso delle proteine animali nella dieta quotidiana, richiedendo una media di 3-5 chilogrammi di grani per ogni chilogrammo di carne prodotta. La conversione di molte colture al bioetanolo, che hanno dirottato a tale utilizzo la coltivazione di circa un terzo del mais statunitense. Un peso rilevante hanno anche i fenomeni di urbanizzazione in Asia, e il depauperamento dei corsi d’acqua per irrigazione nelle pianure della Cina del Nord.

Malgrado la spinta politica (il presidente francese, Nicolas Sarkozy, è regolarmente in prima fila nel denunciare complotti di “speculatori”), vi è scarsa evidenza che il processo di formazione dei prezzi sui mercati delle materie prime sia cambiato negli ultimi anni in risposta alla crescente importanza dei mercati dei derivati finanziari, almeno secondo quanto emerso dalla prima bozza (poi ritirata e riscritta su pressione del governo francese) del rapporto della Commissione europea. Ciò accade perché i contratti futures sono neutrali. Per ogni operatore che guadagna comprando grano, zucchero, zinco o greggio, ce n’è uno che perde esattamente lo stesso importo. Si tratta di un gioco a somma zero, un trasferimento di carta tra agenti finanziari.

Per avere un rilevante impatto sul prezzo occorre acquistare ed immagazzinare fisicamente le materie prime che sono oggetto dei contratti finanziari. Operazione costosa e difficoltosa a farsi, malgrado alcuni operatori, soprattutto i cinesi, stiano facendo con greggio, rame, cotone e minerali di ferro. Ma questo non è ciò che stanno facendo fondi comuni d’investimento specializzati in materie prime. Solo i governi hanno riserve strategiche di petrolio e grano grandi abbastanza per fare la differenza sui mercati dei prodotti fisici.


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