di Mario Seminerio
Oggi Ronald Reagan avrebbe compiuto 100 anni. E’ stato davvero tutto quello che siamo abituati a leggere ed a sentire di lui? Chi scrive ha un vivido ricordo di robuste dissonanze tra la retorica e la realtà, e ne ritrova le radici nelle considerazioni di Murray Rothbard, così come citate da Jeff Riggenbach sul sito del Mises Institute, fonte che dovrebbe effettivamente autorizzare qualche dubbio sull’agiografia reaganiana.
Scriveva Rothbard, riguardo gli otto anni di Reagan da governatore della California:
«Malgrado la sua rodomontata di aver bloccato la crescita del governo statale, la storia vera è che il bilancio della California crebbe del 122 per cento durante i suoi otto anni come governatore, non un grande miglioramento rispetto alla crescita del 130 per cento durante i due mandati dello spendaccione liberal Pat Brown. La burocrazia statale aumentò durante l’amministrazione Reagan da 158.000 a 192.000 dipendenti, una crescita di quasi il 22 per cento – cosa che mal si concilia con il vanto di Reagan di aver fermato l’influenza burocratica»
E riguardo le tasse? Scrive sempre Rothbard:
«Entro la fine degli otto anni di governatorato di Reagan, le imposte statali sul reddito erano quasi triplicate, da 7,68 a 19,48 dollari per ogni 1000 di reddito personale. Durante la sua amministrazione, la California avanzò nella classifica degli stati dal ventesimo al tredicesimo posto nel gettito pro-capite dell’imposta personale sui redditi, e crebbe dal quarto al primo posto nel gettito pro-capite per le imposte sulle società»
Riguardo il Reagan disboscatore di burocrazia e regolazione, è ancora Rothbard a dissentire, lamentando che l’iter autorizzativo per la costruzione di una centrale elettrica in California durava tre anni. Sul welfare, la rimozione dalle liste di assistenza sociale di ben 510.000 persone venne compensata dall’aumento delle erogazioni per tutti gli altri, vanificando i risparmi previsti. Sul piano fiscale Reagan si vantava di aver chiuso molte pratiche elusive, ma ciò di fatto non si tradusse in una effettiva riduzione delle aliquote statali d’imposta, per via dell’operare del famigerato meccanismo di tax and spend, che trasforma sistematicamente in spesa pubblica ogni incremento di gettito. Una prassi che Reagan portò alla Casa Bianca. Come ha scritto nel 2004 Timothy Noah su Slate,
«Il deficit, che nell’ultimo anno della presidenza Carter era a 74 miliardi di dollari, esplose a 155 miliardi nell’ultimo anno di Reagan [anche depurando il dato dall’inflazione, è una crescita inequivocabile, ndr]. Nelle parole del vice-presidente (di GWB) Dick Cheney, “Reagan ci ha insegnato che i deficit non contano”. Nelle parole dell’editorialista Molly Ivins, “Ronald Reagan giunse alla presidenza nel 1980 sull’onda del mantra che avrebbe liberato la nazione da Spreco, Frode e Abuso. E ha aumentato il debito nazionale di 2000 miliardi di dollari con tagli d’imposta e spesa militare a fronte di un’Unione Sovietica al collasso”»
Problemi di contestualizzazione storica a parte (vedi spesa militare), è innegabile che Reagan attuò un lafferismo spregiudicato, che regalò al paese un robusto fardello aggiuntivo di debito pubblico. Né Reagan fu esattamente quel cavaliere del libero scambio che la vulgata ci ha tramandato. Quando Reagan lasciò la Casa Bianca, quasi il 25 per cento delle importazioni americane erano in qualche modo sottoposte a restrizioni, con un aumento del 100 per cento rispetto al 1980. Come disse James A.Baker, che di Reagan fu Segretario al Tesoro, il Gipper “concesse protezione dalle importazioni all’industria americana più di qualunque altro suo predecessore in oltre mezzo secolo”
Sempre secondo Rothbard, Reagan fu soprattutto un grande retore:
«Egli è stato un maestro nel costruire un enorme divario tra la sua retorica e la realtà delle sue azioni. Tutti i politici, ovviamente, hanno un simile divario ma in Reagan esso fu cosmico, massivo, largo come l’Oceano Pacifico. La sua voce vellutata appare perfettamente sincera mentre declama la retorica che che viola giorno per giorno»
A ben vedere, pare che il GOP di Reagan non sia stato poi così differente da quello odierno. Almeno così la vede Riggenbach:
«In realtà, malgrado l’apostasia liberal di Franklin Delano Roosevelt e di praticamente tutti i politici Democratici dopo di lui, malgrado il loro tentativo di battere i Repubblicani al loro stesso gioco promuovendo mercantilismo, statalismo welfaristico e guerra, e chiamandolo “liberalismo” – malgrado tutto ciò dei due partiti è quello conservatore, il GOP, quello che resta il più devoto a mercantilismo, statalismo welfaristico e guerra. Nel corso degli anni Settanta e Ottanta i Repubblicani hanno dipinto la filosofia dei loro oppositori Democratici come “tassa e spendi, tassa e spendi”. Ma in realtà sono i repubblicani, i conservatori, i più grandi tassatori e spenditori di tutti»
«Gli anni successivi a George Herbert Walker Bush non hanno visto nulla che potrebbe spingere a rivedere o ammorbidire questa affermazione. Perché il figlio di G.H.W. Bush, l’ex governatore del Texas George W.Bush, che ha vinto la presidenza in un’elezione fortemente contestata nel 2000 ed è stato rieletto nel 2004, alla fine del suo terzo anno di mandato aveva speso più denaro federale rispetto a quanto Bill Clinton, il democratico “tassa e spendi” che lo ha preceduto, è riuscito a spendere in otto anni»
Resta da capire perché la storia, quella con la maiuscola, è una tale lente deformante. In caso non vi fidaste degli estremisti libertari misesiani, qui potrete confrontare le performance dei presidenti americani su spesa, tasse e saldo di bilancio federale, da Ike a Dubya. Gettate un occhio, in particolare, al grafico relativo all’incidenza sul Pil della spesa federale negli otto anni del Gipper. A parte ciò, quello che emerge è che il vero Reagan si chiama Bill Clinton.
- Lettura complementare fortemente consigliata: il libro Presimetrics, di Mike Kimel e Michael Kanel, e questo post, tratto dall’omonimo blog, con un po’ di fact-checking. Come si evince, Reagan era insuperabile a produrre debito e fiducia dei consumatori. Il divario “oceanico” tra realtà e retorica, per l’appunto.
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