I parolai dell’economia

di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano

Seguendo un collaudato schema in atto ormai da parecchie legislature, il premier Silvio Berlusconi ha annunciato l’ennesima riforma epocale per la liberalizzazione dell’economia italiana. Una terapia fatta di mirabolanti annunci ed altrettanto rapidi insabbiamenti di provvedimenti solennemente approvati in Consiglio dei ministri, spesso in pochi minuti e con la formula “salvo intese”, che significa che l’intesa non c’è ma telecamere e taccuini dei cronisti si, e quindi l’obiettivo dello spin mediatico è raggiunto.

Anche in questa circostanza, dopo la diligente lettera d’intenti e buoni propositi che un puntiglioso ghostwriter di Berlusconi ha inviato al Corriere, è partita la grancassa di esponenti di governo e maggioranza pronti a scommettere che questa sarà la volta buona. Purtroppo, anche solo limitandosi a questa legislatura, la Nuova Era è stata vista albeggiare molte, troppe volte. Ed in ogni circostanza si è trattato solo del baluginio di un miraggio in un deserto di stagnazione.

La legislatura si è aperta con un ardito esperimento di privatizzazioni e liberalizzazioni all’italiana, che ha consegnato la decotta Alitalia ad un drappello di patrioti pesantemente sussidiati, grazie alla eutanasia della sofferente antitrust, per la modica cifra di 3 miliardi di euro di soldi dei contribuenti. Il risultato finale è stata la sistemazione di un grande fido di Intesa Sanpaolo e la creazione di un piccolo vettore regionale che attende fiducioso di essere inglobato da Air France. Si è proseguito con un piccolo capolavoro di populismo antifiscale, l’eliminazione dell’Ici sulla prima casa, che ha sortito un esito regressivo ed ha accentuato la natura derivata della finanza pubblica locale, rendendo i comuni ancor più dipendenti da trasferimenti centrali, proprio nella temperie del Grande Balzo in avanti rappresentato dal federalismo.

Dopo questo memorabile esordio, il paese è entrato a passo di carica nella Grande Recessione, definita da subito come una sorta di psicopatologia della popolazione, che non voleva saperne di consumare e moltiplicarsi. Durante un biennius horribilis nel quale il Pil italiano è riuscito a contrarsi di quasi sette punti percentuali, il governo ha proseguito a mandare segnali di grande tensione riformistica. Dall’obiettivo iniziale di taglio delle tasse si è passati a rivendicare il mancato incremento della pressione fiscale, che postula l’intangibilità della spesa pubblica. Mentre il ministro dell’Economia, tra un best seller ed una lectio magistralis, ci informava che misure anticicliche sarebbero state adottate solo al comparire della ripresa, rendendole quindi inopinatamente pro-cicliche.

Mentre tutto l’esecutivo si sbracciava ad affermare che il nostro paese ne sarebbe uscito meglio di altri, anche grazie al fatto che “le nostre banche non parlano inglese” , Tremonti si è inventato le obbligazioni ibride che avrebbero dovuto salvare le banche medesime, permettendo loro di allargare i cordoni della borsa, soprattutto alle piccole e medie imprese, ma lo ha fatto con tali e tante prescrizioni moralistiche ed operative che difficilmente avrebbero indotto gli istituti di credito ad emetterle, salvo in caso di incapacità o impossibilità a procedere autonomamente a ricapitalizzazioni. Mentre il premier diagnosticava la natura prevalentemente psicosomatica della crisi, il suo ministro dell’Economia inaugurava il fecondo filone dei mostri da videogame, consentendo all’esecutivo di restare del tutto paralizzato nelle riforme, ma di dare comunque la colpa all’opposizione in una ricca narrativa controfattuale che ipotizzava l’ellenizzazione del paese, senza il Cav a Palazzo Chigi.

Durante queste schermaglie assai produttive per la nostra economia, si sono rincorsi innumerevoli progetti di grandi riforme, punteggiati ogni volta da solenni promesse di riduzione dell’Irap e più in generale della pressione fiscale, che sfortunatamente continuava a salire, in parallelo all’incidenza sul Pil della spesa pubblica. Dal grande progetto edilizio della “stanza del figlio”, poi abortito per le resistenze di regioni che in ampia maggioranza non erano tacciabili di statalismo frenatore in quanto espressione del centrodestra, si è poi giunti al tentativo di forzare la crescita attraverso una fantasiosa costituzionalizzazione della medesima, riscrivendo l’articolo 41. Dopo essersi accorti che forse un paese dalla corruzione endemica tende a crescere in modo insufficiente, i Nostri hanno prodotto (oltre un anno addietro e durante l’ennesimo consiglio dei ministri “salvo intese”) un gracile pacchetto anticorruzione che mai ha fatto il suo debutto nei lavori parlamentari.

Nel frattempo il paese perdeva posizioni in tutte le classifiche internazionali di libertà, da quella di stampa a quella economica, anche a causa della irrefrenabile tendenza del centrodestra a restaurare le rendite parassitarie delle corporazioni, dagli avvocati ai tassisti. Ora il governo del fare chiacchiere e danni ci riprova, nell’indifferente rassegnazione del paese e nel frastuono mediatico dei suoi indefessi laudatores.

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