di Andrea e Mauro Gilli
Ieri la Tunisia, oggi l’Egitto, e ora persino lo Yemen. Chissà dove e come finirà questa ondata di proteste che sta scaldando le piazze arabe, e che sta destando non poca preoccupazione al Dipartimento di Stato Americano. Come l’esempio del “1848” ci ricorda, le rivolte si diffondono, anche in assenza di sofisticati mezzi di comunicazione, anche solo grazie al passa parola, arrivando a superare distanze impensabili, e a scavalcare barriere insuperabili.
Prima di chiedersi cosa ci sia da fare, è in primo luogo necessario capire cosa stia succedendo. Il processo è semplice. Le popolazioni mediorientali si sono stancate dei loro governanti. La corruzione endemica, il nepotismo, l’assenza di democrazia e diritti umani stanno diventando sempre meno tollerabili.
La ragione si trova, principalmente, in questioni materiali. Fin quando questi regimi potevano assicurare il “benessere” delle loro popolazioni, lo scambio veniva accettato. Non c’era democrazia ma tutti, più o meno, mangiavano. La crescita della popolazione, da una parte, e gli effetti perversi ed esponenziali dei processi prima descritti (soprattutto la corruzione nell’amministrazione pubblica), hanno di fatto incapacitato questi regimi che, oramai, si preoccupano solo di prendere e non riescono più ad offrire alcunchè in cambio.
D’altronde, non è necessario essere dei fini antropologi per capire come mai i giovani tunisini o egiziani non ne possono più: non solo i loro Paesi non offrono opportunità di lavoro, ma questi si rendono anche responsabili tanto di violenze e che di favoritismi e ingiustizie nell’allocazione delle risorse nazionali. L’alta disoccupazione o l’assenza di prospettive credibili di vita possono essere accettate, se sono equamente distribuite tra la popolazione. Se, invece, l’élite del Paese si mostra ingorda, spostando il peso della sua bulimia sul resto della popolazione, la frustrazione si trasforma in rivolte e sommosse.
A questo punto, la domanda riguarda cosa l’Europa e l’Occidente possano o debbano fare. La nostra risposta, molto semplicemente, è: niente. Se queste popolazioni sapranno rivoltare i loro regimi, tanto meglio per loro. Ovviamente, la nostra attenzione deve essere volta ad evitare che al potere ascendano dei fanatici in grado eventualmente di minacciare la nostra sicurezza. Per quanto triste, dobbiamo essere pronti ad offrire il sostegno agli attuali governanti se, per caso, la transizione dovesse trasformarsi in una pericolosa rivoluzione.
Queste considerazioni ci portano all’ultimo punto. Negli otto anni di George W. Bush, ci fu la freedom agenda, the broader Middle East, l’esportazione della democrazia. E’ interessante che in Egitto, Yemen e in Tunisia, le proteste si siano materializzate non solo dopo queste politiche ma anche in maniera del tutto autonoma da esse. In altri termini, la politica di promozione della democrazia non ha avuto alcuna influenza. Anzi, è facile pensare che abbia ottenuto il risultato opposto, canalizzando la frustrazione delle famose piazze arabe non contro i loro governanti corrotti ma invece contro gli Stati Uniti.
Un ulteriore ammonimento, se ce ne fosse per caso ancora bisogno, contro le smanie interventiste che già si levano da più parti.
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