Studenti, ricerca e spese militari

di Andrea Gilli

La recente riforma dell’istruzione targata Gelmini ha scatenato scontri e proteste. In questa sede, non è mio interesse schierarmi. Piuttosto mi interessa un argomento avanzato da più parti per modificare la riforma. Sia durante alcune trasmissioni televisive che in questo video, gli “studenti italiani” si dicono a favore di tagliare le spese militari (definite sempre in aumento) per ricalibrare la spesa in istruzione. Hanno ragione?

L’idea di fondo degli studenti è che le spese militari siano uno spreco di risorse e che utilizzando quei fondi, la ricerca italiana potrebbe essere rafforzata sensibilmente. A mio modo di vedere ci sono almeno tre problemi con questa affermazione.

In primo luogo, bisogna capire in Italia quanto si spende in difesa. La risposta è presto detta. Il bilancio della difesa ammonta a circa l’1% del Pil (si va dallo 0,87% all’1,1% a seconda delle stime). Per fare un paragone, la spesa in istruzione in Italia è pari al 4,7% del Pil. Il rapporto è di circa 1 a 5. Gli studenti dunque chiedono ad una delle voci più piccole del bilancio statale di sobbarcarsi il peso dei tagli alla ricerca. Singolare, come minimo, specie quando ci sono parti del bilancio statale (pensioni [14% del Pil], sanità [8% circa Pil], amministrazione dello stato [politici, saltimbanchi et simila]) che fanno impallidire sia per il valore delle loro poste di bilancio che per gli sprechi che le caratterizzano.

C’è poi, un dettaglio: le spese militari non sono in costante aumento (come il video sostiene). I dati del SIPRI parlano chiaro: nel 2001 il bilancio della difesa (a prezzi $PPP 2008) ammontavano a 42.433 milioni di euro. Nel 2009, la difesa ha speso 37.472 milioni di euro, una riduzione di 5 miliardi di euro in un periodo nel quale quasi tutte le altre voci di bilancio sono cresciute.

In secondo luogo, bisogna capire come si spende in difesa in Italia. I dati dello IAI (o dell’IISS) parlano chiaro: circa il 67% del bilancio finisce in pensioni e stipendi. L’Italia ha difatti uno degli eserciti con il più basso tasso di investimento per soldato (si veda questo studio di Guy Ben-Ari). La ragione è semplice: anziché licenziare personale, l’Italia ha preferito ridurre gli investimenti (un po’ come l’ingegnere che vende il computer per potersi permettere la tv satellitare…). Gli investimenti non scendono in piazza a protestare, d’altronde. Questa “strategia” ci ha portato alla situazione attuale di assoluta catastrofe. E’ importante sottolineare che qualsiasi ulteriore riduzione del bilancio della difesa finirebbe, per ragioni politiche, non sul personale, ma nuovamente sugli investimenti. Parte di questi investimenti sono proprio in ricerca. Così, paradossalmente, una delle conseguenze della proposta pro-ricerca degli studenti sarebbe di tagliare ulteriormente le spese in ricerca.

C’è, infine, un’altra questione: la politica industriale e il sistema Paese. Per quanto strano, l’Italia ha un campo nel quale è assolutamente al passo con gli altri Paesi del mondo. Questo è il settore spazio e difesa che gira, fondamentalmente, intorno a Finmeccanica. Non è mio compito spiegare come si è arrivati a questi risultati (ci provano, con tesi che non condivido, Vera Zamagni e altri studiosi in questo testo). Il punto di fondo è che l’Italia ha una grande impresa, che fa ricerca, che crea lavoro e che esporta. La proposta degli studenti mira a distruggerla: non male per chi chiede più politica industriale da parte del Governo.

L’impressione, dunque, è di una proposta ideologica e dal sapore meramente retorico che dietro alle parole roboanti (spese militari) cerca di nascondere alcune contraddizioni di fondo abbastanza imbarazzanti. Davvero un brutto inciampo che finisce per suggerire come, dietro a queste proteste, alla fine, non vi sia tutta questa riflessione che si vorrebbe far credere.

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