Valute, l’ultima guerra americana

di Mario Seminerio – Libertiamo

Mercati e investitori attendono il prossimo meeting del Federal Open Market Committee della Federal Reserve, che dovrebbe ufficializzare l’entrata degli Stati Uniti nella seconda fase di quello che viene definito easing quantitativo: in sostanza, l’acquisto di attivi finanziari da parte della banca centrale statunitense. Dopo una prima fase, lo scorso anno, che ha visto coinvolte soprattutto cartolarizzazioni ipotecarie e titoli di stato, oggi dovrebbe toccare esclusivamente ai secondi.

Gli importi non sono conosciuti, si parla di 500-1000 miliardi per il primo semestre ma non vi è conferma, dovendo Ben Bernanke vincere le resistenze dei governatori regionali della Fed, che si mostrano piuttosto vocali contro la misura. L’iniziativa della Fed è solo l’ultima di una serie che ha finora visto coinvolte anche Bank of England e Bank of Japan. L’annuncio della maxi-operazione americana, fatto in agosto da Bernanke durante il tradizionale simposio di Jackson Hole, in Wyoming, ha galvanizzato i mercati, che hanno da quel momento inanellato una serie di risultati positivi, premiando praticamente tutti gli attivi: azioni, obbligazioni, materie prime (soprattuto l’oro, bene rifugio contro lo svilimento delle monete fiduciarie), e deprezzando il cambio del dollaro, come ci si attende quando si accresce la quantità circolante di una moneta. Ma proprio questo deprezzamento, che punta a rilanciare l’economia americana attraverso le esportazioni, e l’imponente liquidità così generata stanno moltiplicando gli squilibri ed i rischi per l’economia mondiale.

I paesi emergenti, abituati a sostenere il proprio export legando al dollaro le proprie valute nazionali, reagiscono al deprezzamento del dollaro tentando di riallineare il cambio. L’enorme liquidità creata dalle maggiori banche centrali si riversa dove vi sono rendimenti attesi più elevati, cioè proprio sui paesi emergenti, che rischiano quindi di entrare in un circolo vizioso fatto di boom creditizio ed immobiliare, proprio come accaduto in gran parte dell’Occidente negli scorsi anni. Il Giappone tenta di frenare l’apprezzamento dello yen, che aggrava la deflazione del paese, ma resta anch’esso un paese con forte surplus commerciale, che giustificherebbe quindi l’apprezzamento del cambio.

La Cina ha ribadito che non intende seguire in tempi brevi questa via, citando rischi di fallimenti a catena di proprie imprese e relativi sommovimenti sociali. Tra Pechino e Washington la tensione è destinata a proseguire, forse con la certificazione di paese manipolatore valutario che il Tesoro americano assegnerà alla Cina dopo il G20 di questo mese, e che rischia di mettere a dura prova la capacità finora dimostrata dai due paesi di fermarsi un attimo prima del precipizio protezionistico. Che accadrà, quindi? Davvero ci attende quella che è stata definita guerra delle valute?

Non necessariamente: lo scenario al momento più probabile appare quello che conduce ad un accomodamento con scossoni, anche rilevanti, ma senza traumi distruttivi. E’ vero che la Cina rappresenta ad oggi la maggiore anomalia macroeconomica del pianeta, frenando il riallineamento del cambio ed il riassorbimento del proprio surplus commerciale. Ma è anche vero che altre divise si stanno rivalutando contro dollaro, quindi le manovre di questi giorni potrebbero essere solo un tentativo di tali paesi di impedire movimenti troppo rapidi (e perciò dannosi) delle proprie divise, senza alterare la tendenza di fondo. Una svalutazione del dollaro rilancerebbe la crescita americana, sia pure nel medio termine, e ridurrebbe gli squilibri macroeconomici globali. Ma tutto ciò non può bastare agli Usa: Barack Obama nei mesi scorsi ha presentato un piano quadriennale che prevede il raddoppio dell’export statunitense sul Pil. Il fatto di avere partner commerciali recalcitranti e con valute agganciate al dollaro sta frustrando questo obiettivo strategico americano. Ecco quindi la minaccia finale, per chi vuole leggere la situazione in termini di conflitto commerciale con mezzi diversi dal protezionismo.

Gli americani inondano il mondo di liquidità, causando bolle ed inflazione nei paesi che si ostinano a tenere le proprie valute agganciate al dollaro, impedendo ai beni americani di diventare più competitivi. In questa situazione, i paesi emergenti sarebbero costretti a lasciare rivalutare il proprio cambio contro dollaro, e l’obiettivo di Obama sarebbe raggiunto. Verosimile, anche come modo per evitare una guerra commerciale conclamata, che avrebbe conseguenze devastanti sull’economia mondiale.

Il volume di fuoco di cui Bernanke dispone lascia intuire che combattere la Fed sarebbe molto pericoloso. Anche in assenza di un accordo formale sui cambi, come quello che è mancato all’ultimo meeting del Fondo Monetario Internazionale, gli americani vincerebbero la prova di forza globale, almeno per questa volta. Tutto già deciso, quindi? Si e no. L’Europa rischia di essere stritolata da questo conflitto tra blocchi economici e politici. Non si dimentichi che la Banca centrale europea è l’unico istituto di emissione che sta perseguendo una normalizzazione delle condizioni monetarie: i tassi sull’euribor stanno rapidamente risalendo, la scadenza mensile è passata in poche settimane da 0,35 a 0,70 per cento. Nessuna meraviglia che l’euro sia così forte. Ma questa forza frena la ripresa del Vecchio Continente, su cui continua ad aleggiare il rischio di una distruttiva crisi di debito. Da qui la frustrazione di alcuni leader europei, tra cui Nicolas Sarkozy, impegnato non a caso in un dialogo con la Cina sui temi valutari in vista del vertice del G20 del mese prossimo. Ancora una volta, l’Europa rischia di pagare molto cara la propria irrilevanza politica.

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