Dalle grandi visioni alle dure riforme (ancora da fare)
di Mario Seminerio – Libertiamo
La lunga intervista di Giulio Tremonti a Massimo Giannini, su Repubblica, rappresenta uno dei periodici momenti di “focalizzazione” strategica e programmatica che il ministro dell’Economia illustra all’opinione pubblica ed ai suoi interlocutori, attuali e potenziali, dentro e fuori dal perimetro della maggioranza. Proviamo quindi ad analizzare alcuni dei punti evidenziati da Tremonti, ed a valutare lo stato di avanzamento dei lavori riformatori di un centrodestra che troppo e troppo spesso, nel passato recente e remoto, si è mostrato assai più declamatorio che operativo.
Dopo aver premesso che non ci sarà alcuna crisi autunnale per il nostro paese, Tremonti illustra i contenuti della prossima riunione Ecofin, che dovrebbero finalmente porre le basi per la riforma del patto di stabilità e crescita, e che prevedono una sorta di peer review delle scelte di politica economica nazionale, con potenziamento del ruolo della Commissione europea. Non si tratta di nulla di realmente rivoluzionario bensì di un atto dovuto, dopo che la prima edizione del Patto non ha retto alle divergenze macroeconomiche dei paesi europei; dapprima con gli scricchiolii del 2005, che portarono ad una diluizione dei criteri ed alla sostanziale disattivazione delle cogenza delle sanzioni, e poi con l’implosione a seguito di quella che viene semplicisticamente definita crisi greca, e che è in realtà una crisi sistemica di debito.
Nell’intervista, Tremonti dettaglia che il nuovo patto di stabilità e convergenza si svilupperà entro la cornice di un “programma di riforma nazionale”, sul quale il governo intende lavorare da qui alla prossima primavera. Obiettivo di questo documento strategico è lo sviluppo competitivo del blocco europeo, visto come entità articolata e composta da una molteplicità di “parti mobili”, le economie nazionali. Quale è la missione italiana, in questo contesto? Quella di sempre, quella dell’ultimo quindicennio, almeno: liberare il paese, liberare la crescita.
Che ora la missione trovi, nelle parole di Tremonti, una sorta di “investitura suprema” nei meccanismi di coordinamento comunitari non può che far piacere, perché i governi italiani tendono ad essere produttivi solo in condizioni di emergenza e vincolo esterno; tuttavia, non è possibile non chiedersi e non chiedere a Tremonti, che da sempre guida la politica economica dei governi Berlusconi, per quale motivo non si è mai fatto nulla o quasi per raggiungere questo obiettivo di ristrutturazione competitiva del nostro sistema-paese, in questi lunghi anni.
Impressiona l’evoluzione dell’elaborazione culturale del nostro centrodestra, passato dall’euroscetticismo con venature eurofobiche all’attuale mantra “è l’Europa che ce lo chiede”, dall’esaltazione dello stato nazionale (o meglio, delle piccole patrie locali) contro la burocrazia sovietizzante bruxellese ad una specie di giuramento del tipo “right or wrong, my Europe“, che Tremonti non perde occasione per reiterare nell’attuale congiuntura. Ad essere maliziosi, sembra un tentativo di ricorrere ad una sorta di legittimazione esterna per le riforme domestiche che verranno. Ma, ancora una volta, la domanda sorge spontanea: perché finora quelle riforme non sono venute? Sappiamo che per Tremonti le cose non stanno così, che molto è stato fatto e altrettanto resta da fare, come spiega nell’intervista a Giannini.
Ci sono otto grandi aree tematiche di sviluppo della competitività, enumera Tremonti. Tra esse abbiamo l’apparente accantonamento di uno dei principali miti sull’impresa italiana, “piccolo è bello”; di cui, se non andiamo errati, lo stesso Tremonti era uno dei maggiori sostenitori, neppure troppo tempo addietro. Che serve alle nostre aziende, quindi? Una crescita dimensionale, probabilmente realizzabile solo in parte, magari attraverso lo sviluppo delle reti di imprese; e l’evoluzione culturale di imprenditori che oggi si ostinano a voler lasciare “tutto in famiglia” e a non accettare soci esterni, tendendo quindi a prediligere il debito al capitale proprio, con quello che ne consegue in termini di limiti allo sviluppo dimensionale e di fragilità intrinseca.
Tremonti cita quello che definisce “il mega fondo pubblico-privato, per lo sviluppo delle piccole e medie imprese”, ma dimentica che quel fondo sta solo ora muovendo alcuni passi preliminari, ad oltre un anno di distanza dalla presentazione del progetto. Perché? A noi questa vicenda ricorda sinistramente quella della “Banca del Sud”, di cui carsicamente si torna a dibattere ma che non ha ancora visto la luce, anche qui a oltre un anno dalla illustrazione di un progetto che pare focalizzato esclusivamente sul lato della raccolta (che è comunque abbondante), ma che nulla dice per gli impieghi: allentare gli standard creditizi rischiando un’esplosione di sofferenze? Oppure cercare di rimuovere dal Mezzogiorno gli ostacoli strutturali che rendono più rischiosa (e quindi costosa) la concessione di credito? Imboccare la prima strada non porta da nessuna parte, speriamo che su questo punto il ministro concordi con noi.
Sulla cosiddetta riforma dell’articolo 41 della Costituzione, un articolo della prima parte della nostra Carta, Tremonti promette un intervento “a breve”, dopo i fuochi d’artificio dei mesi scorsi. A cosa possa servire introdurre in cornice un principio di mercato se il quadro resta invariato non riusciamo a comprenderlo. Passi l’aspetto culturale, di abituare soprattutto le nuove generazioni di italiani a fare a meno del nanny-state, come ci ripetono quotidianamente gli esponenti culturalmente più “avanguardisti” di questo esecutivo, ma servono soprattutto leggi ordinarie, non la costituzionalizzazione della dichiarazione di inizio lavori, come abbiamo letto, tra il divertito e l’inorridito, mesi addietro. Per dare certezza a chi investe ed intraprende serve una tutela rigorosa dei diritti di proprietà: la telematizzazione del processo civile sembra essere fallita o segnare il passo, secondo Tremonti. Forse ci si è concentrati troppo su interventi disorganici sul penale, e forse questi sono anche i frutti avvelenati della stagione dei tagli lineari ai bilanci dei ministeri, Giustizia inclusa? Ma soprattutto, c’entra davvero l’Europa con interventi di questo tipo, che sono strettamente domestici?
Ancora: Tremonti ribadisce che i fondi per lo sviluppo del Mezzogiorno devono essere incanalati secondo una logica di sistema, non regionale o, peggio, regionalistica. L’ennesima riproposizione del concetto di “cabina di regia”, insomma. Bene, ottimo. Ma che c’entra il deus ex machina Europa, e perché finora questo razionale approccio sistemico non è stato utilizzato? E sul nucleare, esistono studi sui costi complessivi? Esistono linee-guida di identificazione dei siti? Forse per questa attività serviva un ministro dello Sviluppo Economico a tempo pieno, e non part-time.
Sulla carsica “riforma fiscale”, quella uscita dal geniale Libro Bianco sul Fisco del 1994, forse ora si riparte perché, dice Tremonti, prima “c’è stata la Grecia”. Sfugge un sorriso. Dall’11 settembre 2001 al settembre 2005 sull’economia italiana e solo su quella ci sono state le Twin Towers, poi fu lo stesso Tremonti a specificare che forse le medesime non c’entravano col fatto che il nostro paese cresceva meno di tutti gli altri. E comunque la Grecia, purtroppo, c’è ancora, e con essa la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda; e anche l’Italia, con il suo rapporto debito-Pil al 120 per cento e la sua crescita strutturalmente deficitaria. Tremonti sa che il nostro paese ha già un National Reform Program, e che si chiama legge annuale sulla concorrenza? Eppure, quella legge non ha ancora visto la luce. Perché?
In questa difficile congiuntura, Giulio Tremonti conferma di essere “il pezzo più pregiato della scacchiera”, come è stato definito di recente: snodo di posizioni politiche maggioritarie ma problematicamente articolate; rigido custode della quadratura dei conti, (per manifesta mancanza di alternative, peraltro); idolatrato da editorialisti a cui talvolta fa difetto il senso critico. Proprio in virtù di questo suo decisivo ruolo, a lui e solo a lui spetta di passare dalla fase della gestione emergenziale dei conti pubblici alla ristrutturazione strategica del paese, declinata nel fare. Perché ci sono ancora troppe discrasie tra le grandi visioni, di cui Tremonti è infaticabile affrescatore, ed una realtà che continua ad opporsi al “lieto fine” di cui il governo ed i suoi massimi esponenti narrano quotidianamente.
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