Politica interna e politica internazionale

di Andrea Gilli

Quest’estate di politica interna italiana è stata tra le più deprimenti che si fossero mai registrate. Si è riusciti così a scavare un ulteriore buco dopo il fondo toccato con l’estate delle escort lo scorso anno. Epistemes non si è mai occupata né intende occuparsi di queste faccende – né vuole prenderne parte. In questa guerra che si è scatenata nella coalizione di Governo alcuni giorni fa è stata buttata la politica estera. E’ il caso di dire due parole.

Scrivendo sul sito della Fondazione Fare Futuro, Federico Brusadelli dice, fondamentalmente, che anche sul lato della politica estera ci sono stati degli errori da parte dell’attuale governo. In particolare chiede se

“la rivoluzione liberale (quella che guardava alla signora Thatcher e al presidente Reagan con ammirazione e invidia) possa avere il volto di Vladimir Putin, e possa davvero consumarsi sotto il tendone di Gheddafi?”

Insomma, l’attuale Governo avrebbe tradito le sue aspettative anche su questo punto. Fermo restando che né accetto né rigetto le critiche al Governo – questo è compito di altri – mi pare necessario fare una puntualizzazione sulla politica estera. Un tema sul quale molti parlano, ma che pochi conoscono e ancora in meno capiscono.

In primo luogo, la politica estera di un Paese deriva, in maniera preponderante, dal contesto nel quale il Paese opera. Le sue istituzioni interne, così come il colore dei suoi governi, possono appesantire o alleggerire la tinta della politica estera ma la direzione non può cambiare. Per fare un esempio, le grandi linee di politica estera dell’Italia sono l’Europa e la NATO: nessun governo, di qualunque colore, penserebbe di metterle mai in discussione. E’ più facile che il Governo cada che non queste linee vengano modificate (difatti, i due Governi Prodi sono caduti uno sulla Guerra in Kosovo – NATO – e l’altro ha rischiato di cadere, più volte sulla Guerra in Afghanistan – NATO).

Quindi, in primo luogo, i governi che si succedono alla guida di un Paese (di medie dimensioni) possono realisticamente prendere decisioni che contano solo su questioni marginali. La domanda, a questo punto, riguarda la Libia e la Russia: sono questioni marginali sui quali il nostro Governo ha margini di scelta?

La risposta è, chiaramente, negativa. La dipendenza energetica del nostro Paese ci costringe a venire a patti con chi ci vende energia. I Paesi occidentali hanno, negli ultimi anni, reso più difficile il commercio con l’Iran. Dell’Iran, in passato, eravamo il primo partner commerciale europeo (petrolio e gas). Venendo meno la fornitura di idrocarburi dall’Iran, la nostra dipendenza dagli altri Paesi è aumentata. In altre parole, la nostra posizione negoziale si è indebolita. A meno di voler lasciare al buio il nostro Paese, era necessario negoziare con Libia e Russia.

Ovviamente, i due Paesi erano ben consci di questi sviluppi e ne hanno approfittato – come era logico per favorire i loro interessi. La Russia ha cercato di espandere la sua influenza in Europa. Gheddafi aveva bisogno di qualche patetica sceneggiata da vendere al suo popolo come prova di quanto egli sia amato e rispettato all’estero. Verso la Libia, inoltre, c’era un secondo problema: l’immigrazione clandestina.

Si può apprezzare o essere critici verso la politica estera del nostro Paese. Un dato è però certo: gli sbarchi di clandestini stanno diminuendo – grazie alla cooperazione libica – e il Paese si è assicurato rifornimenti energetici per il futuro, cercando anche di diversificare le proprie fonti.

Bisogna dunque capire quanto sarebbe stato responsabile non affrontare le due questioni per ragioni di principio. Enrico III di Navarra disse “Parigi val bene una messa”. L’energia val bene qualche ora con Gheddafi sotto il tendone.

A questo punto, resta una domanda di tipo storico: la Thatcher e Reagan fecero delle rivoluzioni liberali nelle loro politiche estere come Brusadelli suggerisce? Anche in questo caso, per rispondere, bisogna guardare al contesto. La Gran Bretagna sotto la Thatcher non fece nessuna rivoluzione: rimase ancorata alla NATO e agli USA. Due eccezioni, a dire il vero, spiccano. Le Falklands in primo luogo e il tentativo di bloccare l’unificazione tedesca dopo il crollo del Muro di Berlino – andando addirittura a chiedere aiuto a Gorbachev. Obiettivamente ci vuole un po’ di fantasia per vedere in uno degli ultimi attacchi coloniali della storia e in una mossa alla Bismarck come i segni di una rivoluzione liberale in politica estera.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti di Reagan, erano un Paese in ascesa che si confrontava con un impero in declino. Ciononostante, Reagan decise di continuare a finanziare i talebani per dare un colpo all’URSS, vendere armi all’Iran per ottenere la liberazione dei suoi ostaggi, usare i proventi di quel traffico per finanziare la guerriglia in Nicaragua e, infine, di sedersi al tavolo con il grande nemico, l’URSS, per concludere la Guerra fredda.

Ciò ovviamente non fa di Reagan e della Thacher due lestofanti. Per gli Stati va usata una moralità diversa di quella degli individui. D’altronde, Cavour disse a Rattazzi: “se dovessimo essere giudicati da un tribunale per quello che abbiamo fatto, saremmo trattati come criminali”. Si riferiva all’unificazione d’Italia. Lo stesso vale per i due statisti anglosassoni che oggi vengono infatti ricordati positivamente. Non per la loro cecità ideologica, anzi: per i risultati positivi che i loro compromessi hanno portato.

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