Wikileaks, la guerra e la democrazia

di Mauro Gilli

La notizia è ormai nota, e non vale la pena spendere troppe parole al riguardo: Wikileaks è tornato alla ribalta. Questa volta, in modo dirompente. Proprio mentre alcuni dei suoi amministratori e principali “fornitori” di notizie sono stati raggiunti dalla giustizia americana, il sito che negli ultimi anni ha creato scompiglio a Washington, DC pubblicando in rete documenti riservati e coperti da segreto militare, ha deciso di fare le cose in grande, passando ad alcuni giornali, tra cui il New York Times, più di 90.000 documenti segreti relativi alla guerra in Afghanistan.

Le reazioni sono state variegate. Da una parte la Casa Bianca ha criticato duramente questa iniziativa, in quanto potrebbe mettere in pericolo la vita dei soldati impegnati nel teatro di guerra afgano (va detto a proposito che Wikileaks ha affermato di aver deciso di non pubblicare, per il momento, circa 15.000 documenti, perché la situazione attuale non lo permette). Dall’altra parte, alcuni commentatori hanno sottolineato come, alla fine, quanto contenuto in questi documenti fosse già largamente noto. Ci sono due aspetti, non secondari: questi documenti sono ufficiali. Essi portano dunque sigilli ufficiali su informazioni che fino a due giorni non erano tali. In secondo luogo, essi si impongono sulla scena politica, ponendo domande che non possono più essere evase.

I collegamenti tra i servizi segreti Pakistani e i Talebani erano noti a tutti: il governo americano, sia sotto l’amministrazione di George W. Bush che di Barack Obama, ha sempre giocato nell’ambiguità, fingendo di non vedere, così da poter mantenere stretti i rapporti con Islamabad. Confermando questi collegamenti, i documenti diffusi da Wikileaks sollevano delle domande alle quali non è possibile non rispondere: come mai il governo americano continua a finanziare un paese che da una parte si dice impegnato nella lotta al terrorismo, e dall’altra parte lo foraggia e lo sostiene? Analogamente, confermando alcune stime delle vittime civili, questi documenti fanno emergere quesiti importanti  su molte scelte adottate negli ultimi anni a livello tattico e operativo.

I documenti pubblicati non offrono nulla di nuovo, vero. Ma lo espongono, per la prima volta, al pubblico più vasto, e in maniera dirompente. In questo, il loro effetto potrebbe essere simile a quello dei “Pentagon’s Papers“, quella serie di documenti segreti che Daniel Ellsberg passò al New York Times nel 1971, e che esposero al pubblico americano le falsità raccontate dall’amministrazione Johnson e dai suoi principali esponenti (primo fra tutti McNamara). Potrebbero infatti dare una scossa salutare al sistema americano. Gli anni in Afghanistan sembrano infatti essere stati caratterizzati da negligenza, o voluta testardaggine, di cui se ne stanno pagando i costi. Finora, nessuno a Washington ha voluto ammettere queste mancanze, e nessuno ne ha ancora risposto politicamente.

Quale sarà il risultato finale? Difficile dirlo. Certamente, l’attenzione che i media stanno prestando a questi documenti potrebbe immergere i cittadini americani nella realtà della guerra – della quale molti sono totalmente distaccati – e così insinuare dubbi sulle contraddizioni che hanno e continuano a definire la missione in Afghanistan. Questa è la democrazia, di cui l’informazione – anche quella illegale – è un pilastro fondamentale. E se questi documenti dovessero creare degli ostacoli alla missione, come è stato avanzato e come è facile immaginare, si tratterà di un ostacolo salutare. Tanto più per una missione che cerca di esportare la democrazia in un altro paese.

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