di Mario Seminerio – Libertiamo
Il ministro dell’Economia ed il premier nei giorni scorsi hanno lanciato l’ipotesi di una profonda liberalizzazione dei regimi autorizzativi alla creazione e gestione d’impresa, da attuarsi addirittura (ed incomprensibilmente) con un intervento sulla prima parte della Costituzione, segnatamente l’articolo 41. Pare proprio che, di rodomontata in rodomontata, l’esito sia destinato a non variare. Vediamo il perché.
In primo luogo, l’idea è un vecchio cavallo di battaglia tremontiano, o almeno del primo Tremonti, quello del libro “Lo stato criminogeno” e del Libro Bianco sul Fisco del 1994; come noto, quel Tremonti è persona diversa da quella che durante l’attuale crisi finanziaria ammoniva che è tempo di dire basta al “liberismo sfrenato” (che in Italia non è mai esistito, ma fa lo stesso), e che lo stato “deve tornare a fare lo stato”. Oggi, di fronte ad una crisi drammatica malgrado le quotidiane professioni di ottimismo, e ad un paese che non intende crescere, ingabbiato com’è da una legislazione pervasiva ed occhiuta oltre che da una classe politica drammaticamente inadeguata ai tempi, si torna a ipotizzare il “liberi tutti”. Sfortunatamente, lo si fa guardando più agli effetti speciali che alla sostanza.
Il riferimento ad un articolo della prima parte della Costituzione è già un notevole passo falso. Cosa andrebbe emendato, nel caso? Siamo ragionevolmente certi che non andrebbe soppresso il secondo punto di quell’articolo, per il quale l’iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana“. E quindi, che resta? Il terzo: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali“. Ancora più generico, indeterminato ed indeterminabile. Come è possibile modificare un principio costituzionale generale, e per ciò stesso astrattamente “alto e nobile”, oltre che fortemente interconnesso ad altri articoli della Carta, ai soli fini di una modifica della legislazione ordinaria sui regimi autorizzativi allo stabilimento e gestione della continuità d’impresa resta un mistero. E soprattutto, quale sarebbe il senso di una modifica costituzionale (che peraltro richiede molto tempo) per applicare un regime transitorio della durata di “due-tre anni“?
Forse il problema sta nel famigerato Titolo V della Costituzione, quello che ha tentato di definire le materie di competenza esclusiva e concorrente tra Stato da una parte e regioni dall’altra? Ma se le cose stanno in questi termini si dovrebbe agire là, cioè sulla seconda parte della Carta, non certo sulla prima. Il problema è la potestà legislativa concorrente tra stato e regioni, così come disciplinata dall’articolo 117 della Costituzione. Esiste, ad esempio, una legislazione concorrente riguardo, tra le altre cose, tutela e sicurezza del lavoro. Vogliamo deregolamentare questa? Non servirebbe a nulla, diciamolo subito, perché comunque lo stato non potrebbe accettare situazioni regionali “vietnamite”, ma se la risposta è affermativa basta agire sull’articolo 117.
Pare che il problema della resistenza alla liberalizzazione economica siano improvvisamente diventate le regioni, stataliste e frenatrici. Ma se le cose stanno davvero in questi termini e se occorrono leggi nazionali per sbloccare la forza della conservazione localistica, a che serve agognare il federalismo, non solo quello fiscale? Naturalmente queste obiezioni neppure scalfiscono le granitiche certezze della Lega, che ha votato ad inizio legislatura l’abrogazione della maggiore imposta federalista presente nel nostro ordinamento fiscale, e che si accinge a votare una manovra correttiva che riduce ulteriormente l’autonomia impositiva locale. Ricordate il famoso “piano casa” governativo, quello che doveva servire a ricavare “un locale in più per i figli”? E’ fallito, come ammette lo stesso Tremonti. Sempre colpa delle regioni? Ma non si era detto che, al crescere del numero dei governatori del centrodestra, ci sarebbe stato un effetto virtuoso di trasmissione dal centro alla periferia degli impulsi deregolatori? Pare di no, se qualcuno nel Pdl questo benedetto “locale in più per i figli” vuol farlo rientrare dalla finestra di un condono, l’ennesimo. L’Italia è una repubblica fondata sullo stato di necessità, si direbbe. Certamente fondata sull’improvvisazione e sull’assenza di visione sistemica, l’unica skill richiesta al legislatore, oggi.
Tornando e restando al nuovo spin tremontiano, come si concilia questa improvvisa conversione ideologica sulla via della libertà d’iniziativa economica con la produzione legislativa di una maggioranza che sta demolendo sistematicamente la libertà d’impresa nel settore di farmacie e parafarmacie e sta aumentando drammaticamente la “riserva” di attività a favore degli iscritti all’Ordine degli avvocati, e non solo? Non è dato sapere. Ancora, il ministro per la Semplificazione normativa, Roberto Calderoli, quello a cui brillano gli occhi davanti a pire di leggi ormai da tempo disapplicate, si dice pronto a preparare una legge per “aprire un’impresa in un giorno”. Ottimo, anche se tardivo e già sentito da almeno un quindicennio. Però il problema non è l’apertura, ma il funzionamento. A che mi serve aprire un’impresa in un giorno se poi devo venire perseguitato con accertamenti successivi, giacché i medesimi verrebbero spostati a valle del fatidico startup? E a che mi serve aprire un’impresa in un giorno se non riesco a tutelare i miei crediti, con una giustizia civile in stato comatoso? Le metriche, in quest’ultimo caso, non accennano a migliorare in nessun distretto giudiziario: la tutela dei diritti di proprietà in questo paese resta affidata al caso.
Ancora: il premier denuncia “l’oppressione fiscale”. E noi con lui, almeno per quelli che non sono in grado giocare con l’Iva. Ma, parlando di oppressione fiscale, ha provato a leggersi quanto è previsto al riguardo nella manovra correttiva? L’impressione è che governo e maggioranza facciano due parti in commedia, stante l’assenza di un’opposizione senziente. La strada per le riforme non passa per una qualche improbabile “rivincita” ideologica sulla prima parte della Costituzione, ma sulla legislazione ordinaria e, in negativo, sull’assenza di grandi scelte dall’inizio della legislatura. Perché “c’è la crisi, ma quando finirà vedrete quanto faremo”. E questa crisi, che appare e scompare a seconda delle convenienze, ci lascia in eredità l’assoluto immobilismo di un esecutivo che continua a non realizzare che questo paese è in svantaggio strutturale sul resto dei paesi con i quali ci confrontiamo. Ma la narrativa resta sempre quella: è colpa dei sindacati, dell’opposizione, della Costituzione che non ci permette di lavorare. La mitologia dell'”agente ostruente esterno” pare suonare ancora convincente, alle orecchie della maggioranza dell’elettorato. Non a quelle dei mercati, però.
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