L’ordinaria manutenzione non basta
di Mario Seminerio – Libertiamo
Nei giorni scorsi il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha scritto una lettera al Foglio per segnalare le evidenze dell’ultimo Sustainability Report 2009 sulla spesa pensionistica, elaborato dalla Direzione Generale degli Affari Economici e Finanziari della Commissione europea. Secondo tale rapporto, che misura il gap di sostenibilità, cioè di quanto dovrebbe aumentare l’avanzo primario di ogni paese per porre in equilibrio la spesa pensionistica, l’Italia si collocherebbe ampiamente sotto la media europea.
A noi servirebbe “solo” un 1,4 per cento in più di avanzo primario su Pil, contro la media Ue del 6,5 per cento e situazioni patologiche in doppia cifra, come quelle irlandese, greca, britannica, spagnola. Non a caso, tutti quei paesi che stanno avendo le maggiori difficoltà a gestire l’attuale crisi economica, e quelle che dovrebbero porre mano con maggiore urgenza a risparmi previdenziali. Per Tremonti, quindi, il sistema previdenziale italiano è in equilibrio finanziario strutturale, e non sarebbero necessarie riforme.
Posizione condivisibile, se non fosse che il problema italiano, oltre alla precaria situazione di finanza pubblica, resta quello del peso sproporzionato della spesa pensionistica sul totale della spesa sociale. Secondo l’Ocse, la spesa pensionistica italiana assorbe il 14 per cento del Pil ed il 30 per cento del totale della spesa pubblica, valori all’incirca doppi rispetto alla media dei paesi Ocse. Le critiche a tale dato, non prive di fondamento, sostengono che in Italia la rendita pensionistica è sottoposta a tassazione, a differenza che in altri paesi. Al netto della fiscalità, quindi, il differenziale si restringe. O ancora, che in Italia esisterebbe commistione tra spesa previdenziale ed assistenziale, tema da sempre caro ai sindacati, soprattutto quando si tratta di mettere mano a riforme previdenziali. Tutto più o meno vero, ma resta il problema di fondo: in Italia la spesa previdenziale in senso lato (ed il bilancio Inps, che con essa si identifica) ha finito con l’assumere un ruolo di supplenza di altri istituti di spesa sociale, inesistenti o gravemente sottodimensionati rispetto ai paesi con i quali ci confrontiamo.
In Italia di fatto non esiste un sussidio universale di disoccupazione, legato cioè alla tutela del lavoratore e non del posto di lavoro. Il governo, per affrontare la crisi, ha istituito la cassa integrazione in deroga, che comprende anche alcune figure professionali e contrattuali, come gli apprendisti e gli interinali, che in precedenza ne erano state escluse. Si tratta di un intervento necessario, utile nel breve termine per ridurre le tensioni più acute legate alla crisi, pur con molte inefficienze di sistema, legate ad esempio alla lenta tempistica di erogazione dell’indennità, ma resta una misura che non copre la totalità dei soggetti interessati, come mostrano i recenti dati della Banca d’Italia, che individuano una platea di non meno di 1,5 milioni di persone prive di ogni tipo di protezione reddituale.
Ma in questa crisi la cassa in deroga finisce anche col porsi come “prolungamento” della cassa integrazione straordinaria (cigs), erogata a fronte di situazioni non temporanee di crisi aziendale. Spesso, tali situazioni di crisi non sono reversibili, ed il rischio è che tali erogazioni ostacolino la dolorosa ma necessaria espulsione dal mercato di imprese decotte, rallentando crescita e sviluppo della produttività, oltre ad assorbire risorse fiscali in modo inefficace ed inefficiente. Nella recente, futile polemica contro la Banca d’Italia sul “vero” tasso di disoccupazione italiano, con il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi impegnato a difendere con le unghie e con i denti un dato italiano solo apparentemente inferiore alla media europea, a molti è sfuggito proprio un aspetto riconducibile alla staticità ed al dualismo del nostro mercato del lavoro e del nostro sistema di protezione sociale. Un tasso di attività troppo basso che tende a produrre, a parità di ogni altra condizione, tassi di disoccupazione minori; ed un sistema di sussidi a beneficio solo degli insider, che maschera la disoccupazione, ritardando le necessarie ristrutturazioni aziendali.
Occorre quindi superare questi interventi di emergenza, introducendo un modello universalistico di protezione sociale legato alla persona, e non al posto di lavoro. Se il sistema-Inps appare, oggi, in equilibrio finanziario, come sostiene Tremonti, ciò non vuol dire che il paese disponga di un sistema di ammortizzatori sociali efficace ed efficiente. Allo stesso modo in cui occorre guardarsi da trionfalismi sull’avanzo finanziario del nostro istituto di previdenza sociale, frutto del recente aumento della pressione contributiva (che deprime il potere d’acquisto dei lavoratori, sarebbe utile ricordarlo), oltre che di un fenomeno di riduzione del numero di pensionamenti di anzianità le cui cause andrebbero meglio indagate, per verificare si si tratti di fenomeno transitorio o strutturale. L’età media effettiva di pensionamento, secondo il presidente dell’Inps, è ormai sopra i 60 anni. Anche così, il differenziale con la speranza di vita sta continuando ad allargarsi. Il governo ha approvato, la scorsa estate, un processo di revisione demografica delle età di pensionamento, pur presentandolo come un “non evento”, tale cioè da determinare, secondo le simulazioni, solo un trimestre di innalzamento dell’età pensionabile entro il prossimo quinquennio. Per motivi non immediatamente comprensibili, tale misura verrà applicata solo nel 2015. Meglio sarebbe stato lavorare da subito per l’eliminazione delle pensioni di anzianità.
Ma una riforma ad ampio spettro del welfare non passa solo attraverso interventi sui requisiti di pensionamento. Da recenti simulazioni, illustrate da Tito Boeri sul sito lavoce,info, emerge una devastante falcidie dell’assegno pensionistico di un lavoratore precario rispetto ad un insider che parte da subito con un contratto a tempo indeterminato. Sotto diversi scenari di crescita, sempre intorno a quello che oggi appare il potenziale dell’economia italiana, cioè incrementi dell’1 per cento annuo del Pil, ed utilizzando i coefficienti di trasformazione in vigore oggi il precario si ritroverà, al termine della sua carriera lavorativa, con un assegno pensionistico inferiore del 30 per cento rispetto al lavoratore “stabile”. Questa simulazione illustra perfettamente la devastazione previdenziale prodotta dal precariato, e conferma l’esigenza di muoversi rapidamente verso il contratto unico a tutele crescenti nel tempo, dove per “contratto unico” si intende evidentemente l’unificazione dell’aspetto normativo relativo alla risoluzione dei rapporti di lavoro. La finalità di questo contratto sarebbe infatti quella di eliminare o ridurre significativamente il dualismo del mercato italiano del lavoro. Avere un sistema previdenziale prospetticamente in equilibrio anche per effetto del precariato odierno è moralmente inaccettabile.
Dal mercato del lavoro alle pensioni tutto si tiene, tutto invoca una Grande Riforma. Perché lo status quo non è un’opzione. Anche se, da un punto di vista strettamente ragionieristico, Tremonti ha innegabilmente ragione. Ma i paesi si governano con la visione strategica, oltre che con le compatibilità finanziarie, che pure sono imprescindibili.
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