Quando il governo economico dell’Ue diventa un’opportunità

di Mario Seminerio – Libertiamo

Nei giorni scorsi, in occasione del Consiglio europeo straordinario, il presidente del consiglio ha affermato di avere posto il problema del peso eccessivo delle pensioni sui conti pubblici dei paesi europei. Circostanza ed affermazione piuttosto irrituali, poiché la gestione dei sistemi previdenziali e della spesa da essi prodotta non pare rientrare tra le attuali prerogative dell’Unione europea. Soprattutto, una frase che appare in contrasto con la presa di posizione del ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, che ha più volte dichiarato che l’Italia, a differenza di altri (la Spagna, ad esempio), avrebbe già messo in sicurezza i propri conti previdenziali, e che ha in seguito precisato che l’intervento di Berlusconi in sede europea “non era riferito all’Italia”.

Sacconi si riferiva alla misura, adottata dal nostro paese, che stabilisce che, a decorrere dal 1° gennaio 2015 “i requisiti di età anagrafica per l’accesso al sistema pensionistico sono adeguati all’incremento della speranza di vita accertato dall’Istat e validato da Eurostat con riferimento al quinquennio precedente”. In quella circostanza, forse per timore di apparire troppo decisionista, il governo precisò che “l’incremento dell’età pensionabile riferito al primo quinquennio antecedente non può comunque superare i tre mesi”. E lo stesso Sacconi precisò, ad abundantiam, che questo trimestre di incremento non era per nulla certo, poiché le statistiche sembravano indicare “una tendenza alla riduzione della speranza di vita dei lavoratori immigrati in Italia” (sic).

Sorvoleremo su questa schizofrenia della classe politica italiana, soprattutto di centrodestra, che nei giorni pari dileggia l’Europa con l’ormai stucchevole battuta sulla curvatura delle banane, e in quelli pari invoca Bruxelles come ineluttabile dominus che ci chiede di fare riforme, dal processo breve alle pensioni. Certo, è sempre più facile invocare pressioni esterne per le misure impopolari, così si può sostenere di essere costretti da altri a fare ciò che altrimenti non si sarebbe fatto. E ci si può perfino lamentare. Ma battute macabre sulla speranza di vita degli immigrati a parte, il tema delle pensioni in Europa è interessante perché suggerisce, forse al di là della volontà del proponente, che esistono spazi per un reale governo economico dell’Unione europea, che oggi appare soprattutto una unione monetaria sull’orlo di una crisi di nervi.

Sappiamo da sempre che il problema dell’Eurozona è quello di non essere un’area valutaria ottimale, cioè di non riuscire a gestire shock asimmetrici che colpiscono propri membri. Prendiamo il caso del processo di aggiustamento oggi richiesto a paesi come Spagna, Grecia e Irlanda. Se questi paesi avessero una propria divisa, il problema verrebbe gestito attraverso il suo deprezzamento, oltre che con il raffreddamento congiunturale che porterebbe, attraverso la riduzione di salari e prezzi, alla contrazione delle importazioni ed all’aumento di competitività del paese coinvolto. Purtroppo la leva del deprezzamento del cambio è preclusa a livello nazionale, e deve essere sostituita con una dolorosa deflazione, che esacerba i problemi di disoccupazione e quelli di crollo del gettito fiscale. E qui potrebbe risiedere l’idea di dare una svolta al governo dell’Unione europea.

Pensiamo agli stati americani. Quando uno di essi è in recessione, si innescano movimenti di migrazione interna verso stati con migliori opportunità occupazionali. Nel frattempo, scattano misure di protezione di welfare, come i sussidi di disoccupazione, che sono gestite in forma prevalentemente centralizzata dal governo federale. Certo, negli Usa la mobilità interstatale è agevolata anche dall’assenza di barriera linguistica, a differenza dell’Europa, ma ipotizzare la creazione di una gestione centralizzata delle protezioni sociali, magari attraverso ristrutturazione del bilancio comunitario, potrebbe servire ad evitare enormi buchi di bilancio nei paesi colpiti da gravi shock economici, che sono oggi costretti a provvedere autonomamente alla gestione dei sussidi, con un devastante impatto sulle proprie finanze pubbliche, che a sua volta tende a produrre circoli viziosi.

Ecco, questo è quello che vorremmo sentir proporre da un premier italiano a Bruxelles: una grande visione politica d’insieme, sganciata dalle contingenze domestiche. Sarebbe il modo migliore per la politica di riappropriarsi delle proprie prerogative, ed evitare di adombrarsi quando visioni riformiste a vasto spettro vengono espresse dal governatore della Banca d’Italia, magari tacciandolo di invasione tecnocratica di campo.


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