Obama, un anno dopo

di Andrea Gilli

Un anno fa Barack Hussein Obama veniva eletto Presidente degli Stati Uniti d’America. Ad un anno di distanza, è possibile fare un bilancio della sua presidenza. Poiché non mi occupo di sanità, economia, o finanza, la mia analisi riguarderà prevalentemente l’ambito della politica estera.

Alla vigilia delle elezioni dello scorso anno, Obama era visto prevalentemente sotto due prospettive: da una parte, a destra, lo si accusava di essere un liberal rammollito, pronto a svendere l’America e incapace di difenderne gli interessi nazionali. A sinistra, invece, lo si vedeva come un vero democratico, a volte persino pacifista, e quindi al suo nome si associavano concetti o valori quali multilateralismo, diplomazia, dialogo. O Carter o Giovanni Paolo II, per dirla in modo diverso.

Se qualcosa è certo, dopo 12 mesi, è che tutte e due le letture erano sbagliate – come avevo anticipato.

Infatti, Obama ha continuato ad attaccare i santuari talebani e di al-Qaeda in Pakistan, ha coniugato la sua promessa di ritiro dall’Iraq con la realtà strategica in campo, e sta andando ad approvare il bilancio della Difesa più alto della storia dell’umanità (siamo oramai ad un soffio dai 700 miliardi di dollari). In altri termini, non è un liberal rammollito che vuole svendere l’America ma dall’altra parte la sua presidenza è ben diversa da quella di George W. Bush.

Come si può interpretare, dunque, la presidenza Obama? A mio modo di vedere, per capire l’era Obama è innanzitutto necessario capire l’era nella quale essa si colloca. Pochi mesi prima delle presidenziali americani, il saggista Fareed Zakaria pubblicava un libro dal titolo The post-American World. La tesi di Zakaria è che staremmo osservando una trasformazione epocale del sistema internazionale: la crescita economica della Cina, dell’India, del Brasile, dell’Indonesia, della Nigeria e del Sud Africa starebbero de-occidentalizzando il mondo.

In altri termini, nel sistema internazionale che si sta creando in questi anni, l’Occidente avrà progressivamente un ruolo minore. Se guardiamo ai dati, la tesi di Zakaria è semplicemente una fotografia della realtà. L’era Obama va dunque compresa in questo contesto: non sorprende che il neo-presidente abbia cercato dialogo, diplomazia e distensione con la sua politica estera. Non potendo nulla contro la dispersione del potere a livello internazionale e contro la crescita delle potenze non-occidentali, per difendere l’America e i suoi interessi non restava che una strada obbligata: limitare al massimo conflitti e scontri, così da ridurre le sue spese (dirette e indirette) e, allo stesso tempo, favorire un clima di dialogo necessario per plasmare il nuovo ordine internazionale.

Sotto questa prospettiva, la politica di Obama verso l’Iran e verso la Russia, per esempio, non solo sono comprensibili ma anche condivisibili. L’America sta affrontando una drammatica crisi economica che arriva proprio in un momento di transizione a suo svantaggio del sistema internazionale: non si vede dunque quali alternative fossero a sua disposizione.

Ovviamente, il fatto che la strategia di Obama sia coerente con il contesto internazionale nel quale essa si colloca non significa che tutte le sue azioni siano state efficaci o tempestive. Proprio su Iran e Russia i dubbi non mancano: quando lo scorso giugno assistemmo alle manifestazioni di Teheran, la Casa Bianca fu presa in contropiede dagli avvenimenti. Dall’altra parte, verso la Russia ci sono state diverse esitazioni, il cui apice si è avuto a settembre quando nel giro di dieci giorni lo scudo missilistico è stato prima degradato e poi annullato. A mio parere, quest’ultimo è l’aspetto più importante e da esso dipende il futuro, e il successo, dei restanti anni dell’era Obama. La politica verso l’Iran, la Russia, ma anche verso l’Afghanistan, l’Iraq, la politica di Difesa (e lo stesso si può dire sulla Finanza e sulla Sanità) ha spesso mancato di unicità e coerenza. La sensazione è che in più occasioni, l’America abbia parlato con più voci. E quando un Paese parla con più voci, allora manca di leadership.

Ad un anno dalla sua elezione, e a poco più di dieci mesi dalla sua salita al potere, Obama ha mostrato un buon fiuto strategico, ma le sue azioni hanno poi anche mostrato numerosi problemi a livello tattico. Se il nuovo Presidente sarà in grado di rimediare a questi primi errori (magari sostituendo anche alcuni individui della sua amministrazione, a partire da Biden e Holbrooke), allora la sua presidenza potrà portare a dei successi. Altrimenti, il vero rischio è di fallimenti su più fronti. La mia opinione è che per Obama non sarà facile risolvere questi problemi. La forza della sua presidenza si fonda sulla sua capacità di unire e queste scelte implicano la necessità di dividere. I veri geni politici sono quelli che riescono ad unire anche quando dividono. Vedremo se Obama riuscirà in questa impresa.

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