Il futuro del dollaro

di Mario Seminerio

Per molto tempo gli investitori si sono indebitati ed hanno venduto massicciamente lo yen giapponese, utilizzando il ricavato per acquisire asset ad alto rendimento. Questa strategia, denominata “carry trade”, ha prodotto elevati ritorni fin quando la crisi economica non ha sconvolto le scommesse degli investitori, spingendoli a ricomprare lo yen e chiudere le posizioni.

Oggi, alcuni osservatori ritengono che gli investitori sarebbero tentati di rimettere all’opera il carry trade, utilizzando questa volta il dollaro come veicolo di finanziamento. Ciò spiegherebbe parte dell’indebolimento sofferto recentemente dalla divisa statunitense, oltre a suggerire ulteriore pressione ribassista per il futuro. Nel mercato valutario, le divise di finanziamento tradizionalmente sono quelle a basso tasso d’interesse e bassa volatilità. Mentre il primo requisito è intuitivo, il secondo è necessario perché la volatilità del cambio può spazzare via il differenziale sul quale gli investitori contano per realizzare un profitto.

Per questi motivi lo yen ha a lungo goduto della preferenza degli investitori. La divisa giapponese è stata caratterizzata da tassi persistentemente prossimi allo zero, mantenuti tali dalla Bank of Japan nel tentativo di stimolare l’economia. Le stesse condizioni starebbero verificandosi oggi per il dollaro. Alla fine di agosto, per la prima volta dopo sedici anni, indebitarsi in dollari è divenuto più conveniente che farlo in yen giapponesi. I bassi tassi statunitensi, oltre alla profondità e liquidità del mercato del dollaro, renderebbero quindi la valuta statunitense attraente ai trader che volessero usarla come base per il carry trade.

La Fed intende mantenere i tassi a zero per il prossimo futuro, e non ha alcuna fretta di procedere sulla strada della normalizzazione delle condizioni monetarie, anche perché l’evoluzione della congiuntura appare particolarmente incerta, pur in presenza di una sostanziale stabilizzazione delle condizioni di attività. Inoltre, il fatto che il dollaro appaia in protratto trend ribassista (anche per l’esigenza di riequilibrare il deficit delle partite correnti e compensare con l’export la minore domanda dei consumatori), ne accresce l’attrattività come veicolo di finanziamento.

Non tutti però concordano circa la fattibilità dell’utilizzo del dollaro in queste operazioni. Le prospettive dello yen come veicolo di finanziamento sembrano essere diventate problematiche dopo l’affermazione elettorale del Partito Democratico, che vorrebbe modificare il modello economico del paese (da uno orientato all’export ad un altro a favore della domanda interna), e non sarebbe quindi contrario all’ipotesi di progressivo rafforzamento del cambio, eventualità che è ovviamente l’ultima cosa che un carry trader desidera.

La persistenza del trend di rafforzamento dello yen non è tuttavia universalmente data per scontata. Secondo alcuni analisti, tale tendenza avrebbe tratto alimento dall’attività di rimpatrio dei profitti in agevolazione d’imposta, in scadenza questo semestre fiscale (il 30 settembre), mentre i recenti commenti del neo-ministro giapponese delle Finanze, Hirohisa Fujii, inizialmente interpretati dal mercato come non opposizione ad un movimento di rivalutazione, e successivamente corretti nella più blanda decisione di contrastare movimenti troppo rapidi sul mercato dei cambi, hanno finito solo con l’iniettare volatilità nel cambio yen-dollaro.

Secondo alcuni osservatori, l’interesse per lo yen come veicolo di finanziamento potrebbe presto riemergere, soprattutto alla luce della forte debolezza mostrata dall’economia del paese, che è la conseguenza di una tasso di crescita fortemente inferiore a quello potenziale (il cosiddetto output gap), che sta manifestandosi anche con il rilevante tasso di deflazione del paese: in agosto l’indice dei prezzi al consumo core, cioè al netto degli alimentari freschi, è stato pari a meno 2,4 per cento tendenziale.

La valuta statunitense sta oggi subendo la pressione di un consenso quasi plebiscitario in favore del suo indebolimento e ciò potrebbe, nel breve termine, determinare movimenti di recupero piuttosto bruschi, spesso innescati da quelli che appaiono poco più che “pretesti”. Ad esempio come quelli causati dalle recenti dichiarazioni di un membro della Banca centrale russa, che ha indicato che il proprio paese intende mantenere un peso di circa il 30 per cento ai Treasuries nella composizione delle riserve valutarie russe.

Il rally dei mercati azionari, con l’indice MSCI World cresciuto di quasi il 70 per cento dai minimi dello scorso marzo, ha contribuito a rafforzare l’appeal del carry trade. A sua volta il dollaro australiano, un beneficiario del carry trade che si muove in tandem con i mercati azionari, è cresciuto del 23 per cento contro dollaro, beneficiando anche delle condizioni macroeconomiche del paese, che appare uscito dalla recessione e la cui banca centrale presto potrebbe iniziare un ciclo di restrizione monetaria. I carry trade, che (non bisogna dimenticarlo), sono uno dei prodotti della disponibilità di credito a buon mercato, tendono ad avere una vita media più breve di quanto comunemente si creda, ed un protratto ribasso dei corsi azionari, come potrebbe accadere ove la crescita degli utili dovesse rivelarsi inferiore a quanto attualmente prezzato dai mercati, potrebbe ridurne l’attrattività.

Altro elemento di potenziale controindicazione all’utilizzo del dollaro come veicolo di carry trade è dato dal ruolo di valuta-rifugio che la divisa statunitense continua a rivestire durante periodi di crisi geopolitiche.

In sintesi, nell’ambito di una tendenza macroeconomica di medio termine che vede il dollaro orientato al deprezzamento per riequilibrare gli squilibri macroeconomici, l’”ipotesi carry trade” potrebbe determinare accelerazioni nel movimento di deprezzamento del dollaro, fino ad un allontanamento dai fondamentali, e produrre quindi fasi di accentuata volatilità sui mercati valutari.

Anche per queste considerazioni il carry trade in dollari potrebbe avere un arco di vita stimata intorno a 6-12 mesi.

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