Afghanistan: zero credibilità internazionale

di Andrea Gilli

La logica sottesa all’uso della forza militare è la seguente: un Paese, o un gruppo di Paesi, decide di ricorrere alle proprie forze armate per raggiungere degli obiettivi politici, per i quali però la sola mediazione politica non basta. Questa definizione implica due assunti fattuali. Il primo è che un Paese sia dunque disposto a subire un costo, anche importante, in termini di vite umane ed equipaggiamento. Il secondo è che questi obiettivi politici siano particolarmente importanti.

Quando un Paese intraprende un’azione militare, la sua credibilità internazionale è elevata. Nel senso che esso mostra di essere in grado di dare seguito alle proprie parole.

L’Italia, nel corso degli ultimi vent’anni, ha cercato di partecipare a quante più missioni internazionali possibili proprio per cercare di aumentare la propria credibilità internazionale e così, poi, reclamare un ruolo maggiore tra i Grandi del mondo.

Purtroppo, dovendo scottare un latente pacifismo, una fortissima assenza di coesione sociale (tale per cui molti parlamentari spesso votano le stesse missioni internazionali non con la logica del Paese ma con la logica della politica interna più spiccia), e fondamentalmente una totale assenza di forti interessi strategici nelle zone di conflitto, chi è al Governo si trova di fronte ad un dilemma.

Se mandando truppe all’estero si cerca di ottenere credibilità internazionale, nel caso in qui queste subiscano delle perdite, il rischio è di perdere credibilità e consenso interno. La soluzione trovata e perpetrata da quasi tutti i Governi è stata il classico “un colpo al cerchio e uno alla botte”. I soldati venivano mandati in missione, ma li si teneva nelle retrovie, si affidavano loro missioni poco importanti o addirittura (come in Libano nel 1984 e nel 2006), si facevano dei patti politici con gli avversari da combattere: in cambio della nostra promessa a non combatterli attivamente, ricevevamo la promessa di non essere attaccati.

Il giochino regge fin quando le missioni a cui partecipiamo sono delle pagliacciate. Quando però il teatro diventa ostico, il castello di carte crolla. E crolla miseramente.

Si può legittimamente credere che in Afghanistan non dovremmo starci. Chi scrive è dell’idea, per esempio, che senza drastici cambiamenti sia della nostra missione che di quella americana, dovremmo togliere le tende. Non si può, però, fare burla del Paese. Mostrare muscoli e tatuaggi quando il solo rumore è quello delle cicale, e poi rintanarsi impauriti sotto coperta al primo scoppio di qualche petardo.

Purtroppo è proprio quanto sta avvenendo in Italia, dove non solo l’On. Bossi ma addirittura anche il Capo del Governo, l’On. Berlusconi, parla di un rientro anticipato per via del sanguinoso attacco di giovedì scorso. E’ vergognoso, è miserabile, è deprecabile.

Come abbiamo detto più volte, se non siamo in grado di condurre una missione internazionale, restiamo a casa. Siamo il contingente NATO che, finora, ha subito il minor numero di perdite. L’uccisione di alcuni nostri militari è un fatto tragico. Ma questa è la guerra. Parlare subito di ritiro quando gli altri contingenti hanno tutti subito perdite nettamente superiori alle nostre è quasi imbarazzante.

Come è imbarazzante che sia il ministro della Difesa francese a chiederci di non farci prendere dal panico.

Mandiamo i nostri soldati all’estero per permettere ai nostri politici di fare le loro sceneggiate patetiche. Lo scopo è quello di rafforzare la posizione internazionale dell’Italia: la sua credibilità. Non ci siamo ancora ritirati. Ma con questa reazione goffa, disordinata e più da Paese centramericano che non da 8a Potenza al mondo abbiamo distrutto tutto quel poco che avevamo seminato in sette anni in Afghanistan.

Forse questa è un’ottima lezione per ripensare completamente le missioni all’estero. Dalla logica “andare sempre tranne dove è davvero pericoloso”, dovremmo passare al “non andare mai, tranne quando è davvero necessario”. Non metteremmo a rischio la vita dei nostri soldati, rafforzeremmo la nostra credibilità internazionale. E soprattutto, non faremmo più queste figure meschine.

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