Lingue straniere o dialetti: cosa insegnare a scuola?

di Andrea Gilli

Il dibattito politico italiano si è recentemente concentrato sulla proposta di istituire l’insegnamento dei dialetti nelle scuole italiane. Oltre alle difficoltà, e i costi, insiti nell’idea di avere insegnanti, corsi, libri di testo certificati dei vari dialetti regionali, come ogni proposta, questa va valutata nelle sue implicazioni. Essere pro o contro ex-ante è infatti di poca utilità per capire la sua portata.

Di fronte alla proposta di insegnare il piemontese a Cuneo, il lombardo a Mantova e il veneto a Padova, due domande sembrano naturali. In primo luogo, questa proposta non è in contraddizione con lo spirito unitario del nostro Paese? In secondo luogo, in un periodo di globalizzazione, non avrebbe più senso insegnare le lingue straniere, così da aprirci al mondo, invece che i dialetti, che ci chiuderebbero in noi stessi?

Le due domande, sono, fondamentalmente, una domanda sull’identità nazionale e, in secondo luogo, sulle politiche formative. Storicamente, le due sono collegate. In altri termini, nel processo di formazione dello Stato moderno, le politiche formative sono state spesso usate, come ha dimostrato Barry Posen, per creare l’identità nazionale di un Paese. Alla luce di questa considerazione, la risposta alla prima domanda sembra essere che, almeno in parte, l’idea di istituzionalizzare il dialetto possa essere in contraddizione con l’identità e l’unità nazionale. Se infatti l’insegnamento del dialetto cercherà o vorrà promuovere un’identità locale in competizione con quella nazionale, allora è ovvio che si pongono dei problemi per la nostra idea dell’Italia. Problemi che, ricordiamolo, non sono legali o giuridici (l’unico modo nel quale nel nostro Paese si guarda a temi e questioni), ma politici, sociologici e sostanziali. Ovviamente questo risultato non è scontato ma è possibile.

L’idea dell’Italia, e il nostro attaccamento ad essa, rappresentano un valore (in entrambi i sensi) fondamentale per competere e interagire in campo internazionale. Storicamente, infatti, maggiore è il livello di nazionalismo di un Paese, maggiore è la sua efficacia in politica estera. Parlando di politica estera, e di insegnamento dei dialetti, non si può non scorgere la seguente contraddizione: in un’era globale, ha senso insegnare lingue locali quando, in realtà, c’è sempre più bisogno di conoscenza di lingue straniere? La risposta a questa domanda va ponderata. Di sicuro, in un’era globale, le lingue straniere rappresentano un asset per la nostra capacità di competere a livello internazionale. Perché dunque sottrarre del tempo a questi insegnamenti, per curare i dialetti?

C’è da dire che la globalizzazione, nei suoi vari effetti positivi, rappresenta un trade-off: insieme ai suoi benefici vengono anche dei costi. Questi costi, spesso, non sono economici, ma si riverberano su altri campi dell’agire umano, come quello ambientale, sociale o politico. Diversi studi hanno dimostrato come la globalizzazione, importando valori estranei alle varie culture locali, crei spesso delle reazioni forti, e talvolta anche violente: dalla xenofobia al terrorismo. Per esempio, il terrorismo islamico, in parte, può essere infatti spiegato dagli effetti dirompenti che la globalizzazione ha avuto sulle strutture sociali del Medio Oriente o sull’identità degli immigrati in Europa. E’ possibile che fenomeni simili si verifichino (o si siano già verificati) in Italia: l’insegnamento dei dialetti può rappresentare un’abile contromisura per affrontare queste evoluzioni – soprattutto alla luce dei recenti fenomeni di razzismo e xenofobia che hanno caratterizzato il nostro Paese. Dall’altra parte, però, è difficile leggere queste proposte sotto questa luce: per affievolire gli effetti indesiderati della globalizzazione, sarebbero infatti necessarie anche politiche volte a favorire l’integrazione degli immigrati e dell’interscambio culturale. Politiche a cui nessuno ha finora accennato.

La domanda da porsi è se la globalizzazione stia provocando queste fratture sociali e psicologiche nella nostra popolazione tali da richiedere di sacrificare ulteriormente delle risorse a scapito della competitività internazionale del Paese, così da rafforzare la base sociale del nostro sistema politico ed economico. Se la risposta è negativa, il dubbio è che queste manovre servano alla fine solo per indebolire l’identità nazionale del Paese a favore di identità locali. Con danno enorme per la base sociale, economica e politica del Paese.

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