Il paradosso del debito mondiale

di Mario Seminerio –  © Liberal Quotidiano

L’agenzia di rating Standard&Poor’s ha posto il debito sovrano del Regno Unito in “negative outlook”, con una probabilità su tre di un subire declassamento nelle prossime settimane, e quindi di perdere il rating massimo. La mossa ha subito portato a volgere lo sguardo agli Stati Uniti, che stanno subendo una lievitazione del deficit indotta dalle nuove iniziative di spesa e dal vero e proprio crollo verticale di gettito fiscale causato dalla crisi. I timori per la sostenibilità fiscale della situazione hanno causato un arresto del forte (e quasi surreale) rally di borsa ed il continuo aumento dei rendimenti dei titoli di stato sulle scadenze intermedie e lunghe, tipicamente la decennale. I mercati guardano alla montagna di debito che dovrà essere collocata già quest’anno, e si chiedono da dove proverrà questa colossale somma.

Dove troveranno gli Stati Uniti 10.000 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni per finanziare l’emissione prevista dei nuovi titoli di stato, e che porteranno lo stock di debito a 21.300 miliardi, e ad una spesa di 1000 miliardi annui solo per interessi (pari al 25 per cento degli incassi fiscali ed al 20 per cento delle spese pubbliche previste)? Il tutto assumendo una crescita nominale del Pil del 4 per cento nei prossimi dieci anni. Uno scenario inquietante, per usare un eufemismo. Per questo i mercati obbligazionari sembrano convincersi ogni giorno di più che questi deficit saranno difficilmente finanziabili, e che ad un certo punto i governi saranno costretti a stampare moneta. Oggi non è più possibile pensare di trarsi d’impaccio puntando sull’export. Come ha scherzato cupamente il Nobel per l’Economia, Paul Krugman, per tornare ai bei tempi andati occorrerebbe trovare altri pianeti su cui esportare, visto che sulla terra ciò non è più possibile.

Ci troviamo infatti in una condizione di crisi da eccesso di debito, che genera il “paradosso del risparmio”, in cui famiglie ed imprese tentano tutte di rientrare dall’eccesso di debito risparmiando di più, e ciò causa il crollo della domanda globale, vista l’interdipendenza dei mercati. Ma ciò produce anche il paradosso dei deficit: gli Stati Uniti hanno avuto per anni un gigantesco deficit commerciale, dove chi vendeva beni agli Stati Uniti (Giappone, Cina, paesi produttori di petrolio) investiva il ricavato in titoli americani. Ciò ha permesso di tenere bassi i tassi d’interesse globali, stimolando crescita e consumi, ma anche l’indebitamento, che ha causato la bolla esplosa ormai da quasi due anni.

Oggi non è più così, e tutti i paesi devono competere per prendere a prestito sui mercati, a fronte dell’esplosione dei deficit pubblici. Ma non possono farlo tutti contemporaneamente, o almeno non possono farlo indefinitamente. Ad un certo punto, i mercati chiederanno tassi sempre più alti, fino a rifiutare di sottoscrivere tutto o parte del nuovo debito. I governi alzeranno le tasse, deprimendo ulteriormente la crescita. Il gioco finirà con la necessità di monetizzare il deficit, e ciò farà crollare il dollaro oltre a scatenare una corsa alle materie prime, viste come riserva di potere d’acquisto.

Naturalmente, questo è lo scenario estremo ed “inerziale”, che non considera la possibile ascesa di nuove potenze regionali, come Cina, India e Brasile, che potrebbero finire con l’assumere quel ruolo di locomotiva che gli Stati Uniti esercitavano globalmente. Ma non sarà comunque un processo indolore, per nessuno.

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