La partecipazione italiana al programma JSF

di Andrea Gilli

Il Joint Strike Fighter F/35 Lightning II è uno dei più ambiziosi programmi militari della difesa americana. Esso mira a sviluppare un veivolo dalle capacità eccezionali e adatto a svolgere svariate tipologie di missioni. L’Italia ha deciso e recentemente ratificato di farne parte. In questo articolo esaminiamo detta scelta.

In un recente articolo pubblicato su Affari Internazionali, che a sua volta riprende un precedente studio dello IAI, Michele Nones appoggia la scelta del Governo Italiano di entrare definitivamente nel programma JSF.

Il JSF, Joint Strike Force, o F/35 Lightning II, è un veivolo multi-ruolo di quinta generazione sviluppato da Lockheed Martin e che presto (ma non si sa ancora quando) andrà a sostituire, tra le altre, la flotta  di F-15 e F/A-18 americana. L’Italia, e con lei Inghilterra e Olanda, ha deciso di far parte del programma: ciò significa, oltre a comprare una quota di aerei, entrerà nella fase di produzione, test e manutezione del veivolo.

L’Italia, in particolare, vedrà non solo l’Alenia di Torino produrre una serie di componenti del mezzo, ma vedrà anche la costruzione di un sito dedicato alla manutenzione dello stesso presso l’aeroporto di Cameri – al quale faranno riferimento tutti i veivoli JSF in Europa.

Il costo, per l’Italia, sarà di 1.800 milioni di Euro, per il centro di Cameri, più la somma che spenderemo per acquistare un centinaio di veivoli. Nonostante il JSF sia stato lanciato alla fine degli anni Novanta, il prezzo di vendita del Lightning II è però ancora ignoto. Si era partiti da 29 milioni di dollari. Ora si sa che il costo, per il momento, si avvicinerà a 70 milioni, ma non si sa di quanto potrebbe ancora salire. Recentemente, gli addetti della Lockheed Martin si sono rifiutati di fare un prezzo alla delegazione olandese in visita nei loro stabilimenti di Fort Worth in Texas. Ma a quanto pare, il prezzo “medio”, almeno per l’Olanda, sarà di circa 70 milioni appunto. Sempre che non si prendano i calcoli del GAO americano, per i quali i veivoli potrebbero arrivare anche a 190 milioni l’uno.

In ogni caso, al momento la somma, anche al ribasso, sembra la seguente: 1.800 milioni + (131 x 70 milioni) = 1.800.000.000 + 9.170.000.000. La somma andrebbe in realtà  scontata nel tempo, visto che gli aerei non verranno comprati e pagati in una sola tranche, ma in maniera differita nel tempo. Ciò non toglie che l’ammontare è di certe dimensioni. Siamo sopra i 10 miliardi di dollari per un programma che durerà una ventina d’anni. Se si considera che l’Italia spende circa 15 miliardi l’anno per la difesa, si capisce facilmente quanto sia mastodontica questa cifra – che non comprende i costi di manutenzione, ammodernamento e riparazione dei veivoli – nè tanto meno quelli di impiego. Senza contare, poi, che l’areonautica è già finanziariamente ed economicamente molto impegnata con il programma Eurofighter. I vantaggi, li riassume però lo studio dello IAI:

1) L’Italia potrà così disporre del migliore veivolo in circolazione. In particolare, si doterà di un apparecchio per attacco al suolo di cui la sua aeronautica si troverà presto sprovvista quando i Tornado andranno in pensione. In particolare, la tecnologia stealth del veivolo assicurerà la sua effiacacia tattica e operativa sul campo garantendoci quella supremazia aerea di cui le nostre forze armate potrebbero sul campo.

2) Avremo così un veivolo interoperabile con gli Stati Uniti e con i nostri principali alleati – e ciò sarà particolarmente utile durante le missioni internazionali. Inoltre, non vi erano sostanziali alternative a questa scelta.

3) Avremo significative ricadute tecnologiche grazie al centro di Cameri.

Ci sia permesso di sollevare qualche obiezione. Secondo lo studio IAI, la tecnologia stealth (che permette l’invisibilità) e le armi in dotazione al Lightening II (gli AMRAAM) permetteranno al veivolo di svolgere funzioni di attacco con precisione e certezza non raggiungibili da altri mezzi – in vendita: punto non secondario visto che il miglior aereo al mondo, il Raptor F-22, non è esportabile (almeno per il momento). Su questo punto, vanno sollevate tre obiezioni. In primo luogo, la tecnologia stealth, come tutte le tecnologie, è costretta all’obsolescenza. Pensare dunque che il vantaggio tattico che essa garantisce ora possa durare per diversi decenni (come lo studio dello IAI sostiene) suona un po’ bizzarro – specie in un’epoca come la nostra dominata da un enorme sviluppo tecnologico. Per capirci meglio, l’Eurofighter Typhoon (un altro veivolo in dotazione alla nostra Aeronautica, e prodotto in cooperazione da EADS, BAE Systems e Finmeccanica) monta un sistema radar (PIRATE) che è in grado di identificare il Lightning II. Un recente studio della Rand Corporation, analogamente, afferma che la contraerea cinese sarebbe in grado di identificare i veivoli stealth, in caso di guerra con gli Stati Uniti. In altri termini, già oggi alcuni sviluppi tecnologici hanno portato a poter neutralizzare la tecnologia stealth dell’F-35.

Il secondo problema riguarda l’efficacia tattica del JSF. I missili AMRAAM, secondo recenti studi, hanno un’affidabilità del 46% – in assenza di una contraerea efficace. E’ chiaro che queste percentuali sarebbero costrette a crollare vertiginosamente se fosse impiegata una valida forza contraerea. Se a ciò si somma che il JSF, per rimanere invisibile, deve montare pochi e missili di minori dimensioni – si capisce quanto i dubbi sulla sua capacità di svolgere puntualmente le sue missioni siano più che naturali.

L’ultimo problema riguarda la filosofia di fondo per la quale la tecnologia avrebbe un ruolo fondamentale nei conflitti moderni, ed in particolare l’Air Power. Le teorie sulla supremazia aerea sono state sviluppate a partire dall’inizio del Novecento con teorici quali Douhet e Mitchell. Sfortunamente, non sono mai state confermate. Sorprende dunque che lo IAI ignori la pubblicistica più recente che ha mostrato in maniera abbastanza inconfutabile (rispetto tanto alla Guerra del Golfo, che alla Guerra in Kossovo e più di recente riguardo ai conflitti in Afghanistan e Iraq) quando precision-strike capabilities non solo non siano per nulla precise ma neppure siano in grado di risolvere alcun conflitto o eliminare puntualmente qualsiasi minaccia.

Il secondo argomento riguarda la peculiarità del JSF. In particolare, con questo prodotto, sempre secondo lo IAI, avremo un veivolo interoperabile con le forze armate alleate, e soprattutto il migliore sul mercato – senza contare che alternative plausibili non erano possibili. Il JSF verrà utilizzato infatti da Inghilterra, Olanda, Turchia, forse Norvegia, Italia e Stati Uniti. Questi sono nostri alleati. Ma lo sono anche Francia, Germania, Spagna e Svezia.

Due osservazioni sono necessarie. L’interoperabilità varrà dunque relativamente ad una parte dei nostri alleati: quelli che useranno il JSF. Non un’altra, quella che fa uso del Rafale o del Gripen. Cinquanta e cinquanta, si potrebbe dire. Non proprio, in realtà: gli scenari internazionali suggeriscono infatti per il prossimo futuro un rafforzamento dell’asse europeo contro un indebolimento della NATO. Saremo dunque più interoperabili con la NATO e i Paesi più filo-atlantici in Europa, ma meno con quelli che diverranno i nostri alleati più stretti.

Da quanto detto ne conseque anche che la logica “non vi erano altre alternative credibili” al JSF non sembra essere molto robusta. Se infatti l’Italia non aveva altre opzioni credibili che non comprare il Lightning II per la sua flotta di attacco al suolo, dovremmo allora credere che Paesi come Francia o Germania, che non compreranno questo prodotto, stiano abbandonando questo segmento tattico e operativo. Ovviamente non è così. Semplicemente i due Paesi hanno sviluppato scelte diverse: la Francia attraverso il suo Dassult Rafale e la Germania attraverso i SuperHornets della Boeing, etc.

Il secondo punto relativo all’interoperabilità riguarda l’effettiva importanza di questo elemento e il suo effettivo uso. E’ ovvio che forze armate alleate che operano con gli stessi sistemi d’arma, con le stesse frequenze e lo stesso linguaggio possono sviluppare un’energia cinetica di magnitudo nettamente superiore a forze disaggretate. La domanda da porsi è però un’altra: quali risultati sono stati sinora raggiunti in termini di interoperabilità? E siamo in grado di essere interoperabili? Le due domande suggeriscono due risposte negative. A livello NATO, dopo cinquant’anni di cooperazioni militare negli armamenti, l’interoperabilità raggiunta è scarsissima. Addirittura sulle frequenze radio non si è riusciti ad ottenere risultati significativi. Un recente studio pubblicato dallo IISS di Londra chiarisce il punto. A non voler essere interoperabili sono gli stessi Stati Uniti, in quanto interoperabilità significa condividere tecnologie e soprattutto intelligence militare. E su questo punto, Washington è davvero poco disponibile a trattare. Quanto l’interoperabilità a livello NATO sia fiacca lo dimostra questo stesso studio: i più alti livelli di cooperazione (e sono davvero minimi) in questo campo sono stati raggiunti tra USA e Inghilterra e Australia. Il fatto che l’Australia sia esterna alla NATO la dice lunga sulla politica americana. Si coopera con chi ci si fida, e ci si fida solo degli alleati storici. L’Italia non rientra in questa categoria.

Il terzo e ultimo punto – quello al quale viene dato maggiore risalto – riguarda le ricadute tecnologiche del centro di Cameri – per cui pagheremo 1.800 milioni di euro. Lo studio IAI parte enfatizzando i possibili guadagni che l’Italia ne ricaverà. In una seconda sede, però, lo stesso lavoro poi ammette che gli Stati Uniti, sia relativamente al programma JSF, che in altri ambiti, hanno sempre adottato una politica molto drastica circa i trasferimenti tecnologici. Tanto drastica che solo due anni fa la Gran Bretagna aveva addirittura minacciato di uscire dal programma JSF. Man mano che lo studio procede elencando le tecnologie con cui avremo a che fare, esso rileva anche tutti i limiti già posti in essere in merito al loro trasferimento. Poichè gli Stati Uniti non sono famosi per essere generosi in materia di tecnologie militari, sembra fino ingenuo pensare che effettivamente potremo avere delle forti ricadute tecnologiche o comunque tali da giustificare una spesa di 1.800 milioni di euro.

L’ultimo elemento sul quale non possiamo soffermarci a lungo ma sul quale invitiamo ulteriore riflessione riguarda i costi operativi del mezzo. Quanto costerà far volare, mantenere, riparare e equipaggiare la nostra flotta di JSF? Al momento non siamo in grado di dare una risposta. Ma di sicuro non si tratterà di poche migliaia di euro. La trasformazione degli eserciti nazionali in atto in questa fase storica punta alla mobilità, flessibilità e rapidità. Con un bilancio della difesa sempre più fiacco, la domanda da porsi è se effettivamente gravandolo sia con costi fissi che con costi variabili di queste entità, le nostre Forze Armate saranno più mobili, flessibili e rapide.

Alla luce di questi elementi, dunque, non resta che chiedersi se il programma JSF sia davvero di nostra convenienza. A meno di pensare che Paesi quali Francia, Germania e Spagna adottino politiche totalmente dissennate in materia di defense policy, la risposta sembrerebbe essere negativa. Il dubbio che sorge è quindi che in realtà il procurement militare, in Italia, sia una forma nascosta di politica industriale. L’ingresso del JSF non risponderebbe dunque a logiche militari ma a logiche industriali. Ciò è assolutamente lecito. Certo che però, se non ci dovessero essere le ricadute tecnologiche previste, il JSF rischia di trasformarsi in una sconfitta sia militare che industriale – oltre ad una partita di giro tra Difesa e Alenia.

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