La riscossa degli ottimisti americani

di Mario Seminerio – © Liberal quotidiano

Mentre i lavori del G-20 dello scorso fine settimana si sono chiusi con alcune dichiarazioni di principio circa l’importanza di ripristinare i flussi di credito nell’economia come prerequisito fondamentale alla stabilizzazione del quadro macroeconomico, i recenti vistosi rialzi dei mercati azionari hanno suscitato speranze ed interrogativi circa la possibilità che il peggio sia effettivamente alle nostre spalle. La nostra impressione è che sia ancora del tutto prematuro giungere ad una simile conclusione, e tentiamo di illustrarne i motivi.

E’ noto che i mercati azionari anticipano la congiuntura, a volte anche di parecchio. Per questo motivo gli annunci di Citigroup e Bank of America, le due grandi malate del sistema finanziario statunitense e globale, circa l’esistenza di una robusta redditività operativa nel primo bimestre dell’anno hanno contribuito a innescare un vistoso rally dei corsi azionari. Sfortunatamente, le due banche nulla hanno detto riguardo l’entità delle svalutazioni di attivi tossici che dovranno affrontare nelle prossime settimane, e che finiranno con l’erodere la loro apparentemente “robusta” capitalizzazione. Inoltre, la ripresa di redditività è in larga parte frutto di margini di intermediazione drogati da un lato dalla possibilità di indebitarsi al tasso pressoché simbolico consentito dalle agevolazioni governative, e dall’altro da prestiti erogati con maggiorazioni sui tassi interbancari (spread) che restano ancora molto elevate, indicatore caratteristico della stretta creditizia in atto. Il sospetto è che le autorità politiche statunitensi abbiano deciso di scegliere la via della “riparazione” dei bilanci delle banche attraverso questo processo, che è lento, costoso (per contribuenti e richiedenti credito) ed inefficiente.

Altra notizia che ha galvanizzato i mercati è stato il dato delle vendite al dettaglio statunitensi di febbraio, pressoché invariate, ma significativamente migliori delle stime di consenso degli analisti, che si accoppia alla revisione al rialzo di gennaio. Un dato che sembra suggerire il ritorno sulla scena del consumatore americano. Ma anche in questo caso, occorre essere prudenti: infatti, il fattore di correzione statistica per la stagionalità è stato in febbraio il maggiore degli ultimi 12 anni. I dati grezzi, cioè non corretti per la stagionalità, mostrano in realtà un calo mensile del 3,9 per cento, mentre storicamente il mese di febbraio tende a produrre variazioni mensili positive prima della destagionalizzazione.

Esiste allora qualche elemento di speranza, in un quadro fatto di sostanziale collasso del commercio internazionale, della produzione industriale globale e, in ultima istanza, della domanda? Per rispondere occorrerà osservare alcuni indicatori anticipatori. Tra essi, un ruolo di rilievo spetta all’andamento delle scorte. Il crollo verticale della domanda ha causato un accumulo involontario di scorte. Le imprese hanno i magazzini pieni. Ciò determina un aumento del tutto fittizio dei dati di prodotto interno lordo, che tende a farli apparire migliori di quanto effettivamente non siano (perché le scorte contribuiscono alla crescita del Pil, anche se sono destinate a restare invendute), ma al contempo costringono le imprese a pigiare con violenza il pedale del freno, cioè la produzione, e ciò si riflette in minore attività e livelli futuri di occupazione. Ebbene, gli ultimi dati statunitensi mostrano che le imprese stanno smaltendo di buona lena gli stock, più di quanto inizialmente stimato.


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