Inutili i test di Obama, meglio nazionalizzare

Si può analizzare degli zombie?

di Mario Seminerio – ©LiberoMercato

Mentre negli Stati Uniti infuria ormai la battaglia “filosofica” sulla nazionalizzazione degli istituti di credito, il Tesoro inizia la serie di stress test sulle principali banche del paese, per verificare la loro capacità di restare solvibili a fronte di scenari in ulteriore deterioramento rispetto alla situazione attuale. E già qui sorgono forti dubbi, metodologici e sostanziali. La burocrazia federale del Tesoro, ammesso e non concesso di disporre dello staff numericamente necessario ad eseguire i test, è anche in possesso delle competenze specialistiche per analizzare i documenti aziendali a supporto dell’erogazione di crediti e dell’effettuazione di investimenti? Soprattutto, come effettuare lo stress test di cartolarizzazioni se non si dispone neppure dei documenti relativi ai crediti in esse incorporati?

In caso questi test mostrino la necessità di procedere a ricapitalizzazioni, la banca interessata potrà preliminarmente rivolgersi al mercato, sapendo tuttavia di poter contare sulla possibilità di intervento pubblico. Che prenderà la forma di uno strumento sporadicamente utilizzato in passato, ed in contesti di mercato completamente diversi: le azioni privilegiate a conversione obbligatoria in ordinarie. Una formula barocca che rinvia l’appuntamento con la diluizione degli azionisti ordinari, e fornisce alla banca capitale non immediatamente classificabile. Infatti, il Tesoro ha deciso di condurre lo stress test sulla base non del Tier 1 bensì del Tangible Common Equity (TCE), che è una grandezza che indica sostanzialmente quanto gli azionisti ordinari otterrebbero in ipotesi di scioglimento della società, ed esclude dai quozienti le preferred shares e gli intangibles, come l’avviamento pagato per acquisire altre banche e i crediti d’imposta differiti. Nel caso americano, ad esempio, Citigroup ha rilevante presenza di deferred tax credits, che gonfiano il suo capitale. Mentre il Tier1 di Citi è piuttosto elevato e pari a circa il 12 per cento, il suo TCE è pari a solo l’1,5 per cento, a fronte di standard normali richiesti dal mercato pari al 3 per cento. Lehman e Bear Stearns avevano anch’esse un Tier1 formalmente elevato, ma un TCE pressoché nullo, ed i mercati le hanno sanzionate. Come classificare quindi le azioni privilegiate a conversione obbligatoria, semplice capitale o TCE? La scelta del TCE anziché del Tier1 è un interessante cambiamento di metodologia, ponendosi in un’ottica di valutazione simile a quella dei mercati.

Nessuna novità
Ma questa encomiabile operazione-verità rischia di essere vanificata da quello che Geithner dovrebbe fare dopo aver certificato il rischio di insolvenza: nei giorni scorsi il segretario al Tesoro ha fatto trapelare la possibilità che l’intervento pubblico nel capitale ordinario delle banche si arresti all’80 per cento, lasciando agli azionisti preesistenti il rimanente 20 per cento. Se questo orientamento fosse confermato, si riprodurrebbe lo scenario-AIG, quello dove si ha una istituzione finanziaria che di fatto è nazionalizzata, ma il cui management risponde in primo luogo a sé stesso ed all’azionariato privato superstite. Un centauro dove le perdite vengono socializzate ma il management mantiene libertà di azione, ricorrendo all’abituale minaccia del danno sistemico per ottenere dotazioni crescenti di fondi pubblici, come confermato dall’ultima (solo in ordine cronologico) richiesta, presentata lunedì 23 febbraio. Anche considerando le peculiarità del caso AIG, prima fra tutte la presenza abnorme di posizioni di rischio derivanti dall’aver venduto protezione creditizia tramite credit default swap (circostanza che è una vera e propria arma di distruzione di massa, visti i margini di garanzia coinvolti), non può sfuggire la percezione del rischio di mantenere in essere tutta l’incertezza sulla reale entità degli attivi tossici, la cui consistenza è pienamente indagabile solo dopo una completa nazionalizzazione.

Come Bush
Colpisce che Geithner e Obama stiano seguendo lo stesso percorso di Paulson e Bush nel non volere o potere tagliare questo nodo. E certo colpiscono anche alcune prese di posizione “pesanti”, come quelle della Commissione Europea, che ha esplicitamente invitato i paesi membri Ue a valutare la possibilità di nazionalizzazioni come strumento definitivo per svelare la reale entità degli attivi tossici, visto che il management delle banche in nessun caso sembra deciso a farlo spontaneamente malgrado le esortazioni autorevoli, ultima in ordine di tempo quella del governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, che ha reiterato un precetto elaborato dal Financial Stability Forum, che presiede.
O come quella di Alan Greenspan, che la scorsa settimana ha pubblicamente dichiarato che, nel caso delle banche, potrebbe essere necessario ricorrere a nazionalizzazioni temporanee. Ma Greenspan ha detto altro e di più: che “Tutta la sofisticata matematica e le stregonerie da computer essenzialmente poggiavano su una premessa centrale: che l’illuminato egoismo di proprietari e manager delle istituzioni finanziarie li avrebbe condotti a conservare un sufficiente cuscinetto contro l’insolvenza attraverso l’attivo monitoraggio e gestione delle posizioni di rischio e del capitale delle loro aziende.

Sparare su Greenspan
Quello di sparare su Greenspan è ormai diventato stucchevole esercizio collettivo, e vorremmo astenercene, ma non si può non constatare che tutto il ragionamento dell’ex “Maestro” verte sulla contraddizione tra le virtù di un mercato che si autoregola (a suo giudizio), e gli interventi di continua reflazione della massa monetaria, attuati dalla Fed per oltre un decennio, ogni volta che il mercato azionario dava segni di cedimento e volatilità. Era la celeberrima “Greenspan put”, l’opzione concessa ai mercati finanziari per trarsi d’impaccio, ogni volta a prezzo di nuove e maggiori iniezioni di liquidità. Questo ciclo di forti espansioni e futili tentativi di restrizioni monetarie, o di esercizio di una qualche forma di moral suasion, come nel caso del famoso discorso sull’”esuberanza irrazionale” dei mercati, poi prontamente ritrattata, sono il marchio distintivo di un’epoca di progressivo svilimento del valore della moneta, che stiamo pagando oggi in termini di rientro dalla leva finanziaria, un processo doloroso e destinato a produrre una crescita anemica che durerà anni e cambierà il volto della società americana e non solo.

Oggi, possiamo solo sperare che la leadership degli Stati Uniti scelga di recidere definitivamente i legami con quell’epoca. Ma per farlo occorre passare anche per la nazionalizzazione delle banche-zombie.


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