di Mauro Gilli
Il Segretario di Stato Hillary Clinton, in visita a Pechino, ha sottolineato come le divergenze di vedute tra gli Stati Uniti e la Cina in merito ai diritti umani non debbano ostacolare la collaborazione tra i due paesi relativamente a questioni più urgenti come la crisi finanziaria e il cambiamento climatico.
Questo approccio pragmatico agli affari internazionali è assai curioso, visto che la stessa Hillary Clinton, la scorsa estate, invitò l’allora presidente George W. Bush a disertare la cerimonia di apertura delle olimpiadi cinesi per protestare contro le violazioni dei diritti umani in Tibet. A meno di una conversione sulla strada per Foggy Bottom ad una filosofia diversa da quella che predicava la scorsa estate, sembrano esserci pochi dubbi sul fatto che le affermazioni pubbliche di pochi mesi fa estate fossero mosse da null’altro che condirerazioni domestiche.
Proprio in questo, Hillary sembra aver ripercorso le orme del marito Bill. Durante tutta l’estate del 1992, in piena campagna elettorale per le presidenziali di quell’anno, Clinton attaccò duramente l’allora presidente George H.W. Bush per la sua politica distensiva con Pechino, a dispetto degli avvenimenti di Tienammen del 1989.
Malgrado questa intransigenza durante le sue apparizioni pubbliche, Clinton sembrava coltivare convinzioni molto più moderate in privato. Infatti, dopo essere stato eletto, come ha raccontato lo studioso di Cina David Lampton nel suo Same Bed, Different Dreams, Clinton si recò più volte a Pechino, e le relazioni con la Cina divennero tra le sue principali preoccupazioni. In particolare, in queste visite Clinton rese chiara la sua volontà di voler continuare la cooperazione instaurata dal suo predecessore, e, se possibile, addirittura rafforzarla.
Il comportamento di Hillary Clinton non deve dunque stupire. Più semplicemente, dimostra come interessi di bottega spingano i politici a muovere critiche che loro stessi poi non terranno in considerazione una volta al potere. Tutto ciò può permettere due riflessioni, una relativa agli effetti domestici, e una relativa agli effetti esterni del ricorso alla retorica per fini politici.
Una volta presidente, lo stesso Bill Clinton dovette affrontare una vocale opposizione (da parte dell’opinione pubblica quanto del congresso) verso ogni tipo di collaborazione con la Cina. Non fu Clinton a creare questa oppozione. Ma la decisione di cavalcare il consenso, durante la campagna elettorale, non può essere ignorata.
L’ultima considerazione riguarda invece gli effetti esterni della retorica domestica. Nel suo Failed Illusions, Charles Gati ha illustrato egregiamente come la retorica domestica negli Stati Uniti contribuì (insieme ai giornalisti di Radio Free Europe) a creare l’impressione tra gli oppositori del regime ungherese che i carri armati americani sarebbero arrivati a salvarli. Il risultato fu un massacro, probabilmente evitabile. Un esito analogo, come aveva rilevato Francis Fukuyama sul suo blog questa estate, è stato quello in Georgia. Tale fu la retorica a favore delle “democrazie” e della necessità di aiutare i popoli minacciati da Grandi Potenze che il presidente Georgiano Saakashvili (che ha conseguito una laurea in legge negli Stati Uniti, e quindi un uomo che dovrebbe conoscerne i meccanismi interni) si illuse di potersi permettere alcune spericolatezze perchè gli Stati Uniti erano dalla sua parte.
Ricorrere alla retorica su temi internazionali per meri calcoli elettorali (e, nel caso di Hillary Clinton, si tratta della semplice necessità di raccogliere consenso), non solo può ostacolare l’adozione di determinate politiche in futuro, ma rischia anche di creare, appunto, illusioni nei popoli che sono vittime di ingiustizie e abusi.
Retoricamente si dice di voler aiutare i più deboli, sostanzialmente li si incoraggia verso la via che porta alla loro distruzione.
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