Divisi sul dopo crisi

Bernanke ha paura dell’inflazione, Trichet teme la frammentazione

di Mario Seminerio – © LiberoMercato

Nei giorni scorsi è circolata la notizia di un approccio della Federal Reserve presso il Congresso, per valutare la possibilità (ad oggi preclusa dalla legge) che la banca centrale statunitense possa emettere propri titoli di debito fruttiferi. Secondo gli analisti, questa eventualità avrebbe soprattutto l’obiettivo di modificare la composizione delle passività della banca centrale, ad evitare che, quando la ripresa economica si manifesterà, possa verificarsi una devastante fiammata inflazionistica. Pare singolare discutere di inflazione proprio nelle settimane in cui va formandosi un preoccupato consenso sul rischio di deflazione. Ma la natura e le implicazioni di questa crisi epocale portano con sé anche rischi molto eterogenei e potenziali rovesciamenti di scenario. Per valutare la mossa della Fed occorre comprendere che, storicamente, le riserve detenute dalle banche statunitensi presso la banca centrale sono ammontate ad una cifra compresa tra i 5 e i 10 miliardi di dollari. Oggi, sono pari a 650 miliardi e la recente decisione di Bernanke di procedere ad acquisti a titolo definitivo di mutui ipotecari e cartolarizzazioni aggiungerà non meno di altri 800 miliardi di dollari al totale.

Al momento della ripresa, la Fed dovrà “prosciugare” questa montagna di riserve bancarie, per evitare che si trasformino in una bomba inflazionistica. Per fare ciò, è possibile che Bernanke ed i suoi collaboratori pensino ad emettere titoli fruttiferi di debito, che produrrebbero l’effetto di ricomporre il passivo della Fed. Naturalmente, queste sono considerazioni (per ora) teoriche. Pensare che la Fed, eventualmente dotata di autorizzazione ad emettere proprio debito fruttifero, possa rapidamente prosciugare 1500 miliardi di dollari di riserve in eccesso che essa ha creato per combattere la stretta creditizia, rischia di essere irrealistico. Soprattutto perché si tratterebbe di debito aggiuntivo a quello del Tesoro statunitense, e gli investitori internazionali (soprattutto la Cina) potrebbero non volere o potere sottoscrivere questa montagna di carta.

Ma ci sono altre situazioni di forte rischio potenziale, tutte in qualche modo interconnesse dall’attuale situazione dei mercati. Una di esse è rappresentata dai rendimenti sui titoli di stato statunitensi. Nei giorni scorsi l’asta del T-Bill (l’equivalente del nostro Bot) ha fatto segnare un rendimento di aggiudicazione lievemente negativo. In altri termini, gli investitori hanno pagato il Tesoro statunitense per poterne comprare il debito, ritenuto un porto sicuro nella tempesta finanziaria. Ma è tutta la curva dei rendimenti a trovarsi su valori eccezionalmente bassi, ormai del tutto simili a quelli che caratterizzano da oltre vent’anni i titoli di stato giapponesi. Possiamo affermare che sui Treasury bond è in atto una bolla? Per molti aspetti si. E che accadrà quando sui mercati tornerà la fiducia? Che gli investitori si libereranno rapidamente di titoli di stato che rendono pressoché nulla, alla ricerca di opportunità di investimento più remunerative. In quel momento la Fed si troverà di fronte al dilemma se lasciare schizzare al rialzo i rendimenti di mercato o frenarne l’ascesa, pur senza combattere la tendenza di fondo. In questo secondo caso Bernanke dovrà necessariamente iniettare nuova liquidità nel sistema, monetizzando il debito, e ciò metterà pressione all’inflazione. Nel primo caso, invece, il violento calo dei prezzi dei titoli di stato, venduti a mani basse dagli investitori, causerebbe la fuga degli stranieri (si pensi allo stock di titoli americani detenuto dalla sola Cina), ed un violento deprezzamento del dollaro. Come si può cogliere da questo abbozzo di scenario evolutivo, la lungamente agognata ripresa rischia di portare con sé turbolenze altrettanto gravi di quelle con cui ci confrontiamo in questo momento di recessione profonda.

Ma anche dall’altro lato dell’Atlantico, alla sede della Banca Centrale Europea, si cerca di gestire problematiche altrettanto complesse. Da alcuni giorni circola l’indiscrezione di un intervento formale dell’istituto di emissione di Francoforte per sbloccare definitivamente il mercato interbancario. La Bce è da sempre criticata per la lentezza con cui sta riducendo il costo del denaro. Critiche non sempre fondate, sia perché basate sul confronto con l’azione della Fed, che si svolge entro una differente cornice istituzionale, sia perché i fondamentali dell’economia dell’Area Euro sono diversi rispetto a quelli statunitensi. I recenti tagli dei tassi ufficiali d’interesse sono riusciti a pilotare al ribasso anche l’interbancario, ma il movimento appare ancora piuttosto vischioso. Le banche restano timorose a prestarsi fondi oltre scadenze molto brevi, e ciò malgrado la rete di garanzie pubbliche messe in atto dai governi nazionali, spesso in modo scarsamente coordinato. La apparente “lentezza” con cui la Bce ha tagliato i tassi deriva, oltre che dai motivi sopra indicati, anche dal fatto che, nell’attuale contesto, la politica monetaria non si trasmette completamente ed immediatamente al sistema creditizio, e da lì all’economia reale. Abbassare i tassi verso lo zero come fatto dalla Fed, in assenza di un sistema interbancario e creditizio funzionante equivarrebbe a sprecare munizioni e raggiungere rapidamente, in caso di aggravamento della crisi, la condizione di “trappola della liquidità” in cui si trovano oggi gli Stati Uniti.

Per questo motivo la Bce starebbe pensando di creare una sorta di cassa di compensazione e garanzia per il credito interbancario, ed un gruppo di studio è stato a tal fine istituito presso la Bundesbank. L’obiettivo della Bce è manifestamente quello di evitare che le misure prese per garantire i prestiti interbancari siano di tipo nazionale, perché questo causerebbe una segmentazione del mercato monetario che sarebbe fonte di distorsioni, dirottando gli scambi sui paesi che offrono le maggiori garanzie. In alternativa alla clearing house, la Bce potrebbe ridurre il tasso che paga alle banche che depositano presso di essa sulla scadenza overnight. Oggi quel tasso (pari a 50 centesimi sotto il tasso-chiave di rifinanziamento) è del 2 per cento, inferiore a quello che si potrebbe ottenere sull’interbancario per pari scadenza, ma le banche continuano a preferire la sicurezza assoluta. Ridurre quel tasso potrebbe (ma il condizionale è d’obbligo) modificarne i calcoli di convenienza relativa. Ove si giungesse anche in Europa a condizioni di blocco del credito, la Bce avrebbe margini di autonomia molto inferiori a quelli della Fed, soprattutto a causa della frammentazione dei mercati nazionali europei di credito. Non sarebbe ipotizzabile, ad esempio, pensare ad un programma di acquisto di carta commerciale come quello della Fed, perché in Europa quel mercato rappresenta una fonte di finanziamento aziendale soprattutto in Francia, mentre in Germania prevale il tradizionale credito bancario. Discorso analogo per l’eventuale azione di “easing quantitativo” compiuta attraverso l’acquisto a fermo di obbligazioni, pubbliche e private, a scadenza media e lunga: premesso che oggi la Bce non può acquistare titoli all’emissione ma solo sul mercato secondario, di quali titoli di stato dovrebbe trattarsi, trovandosi di fronte a quindici diversi emittenti nazionali?

Come si comprende da queste considerazioni, spesso le critiche alla Bce nascono dalla mancata comprensione della frammentazione del quadro istituzionale e di mercato in cui l’istituto di emissione opera. Iniziative volte a creare ambiti di gestione sovranazionale delle criticità, come la citata ipotesi della cassa di compensazione sull’interbancario, indicano il ruolo di forte supplenza (anche politica) che la Bce si trova a dover gestire negli ambiti di propria pertinenza, in assenza di quel federalismo politico che l’Europa continua a non riuscire a realizzare.

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