Europa, attenta alla sindrome islandese

di Mario Seminerio – © Libero Mercato

Venerdì scorso il primo ministro islandese, Geir Haarde, nel tentativo di rinfrancare i propri connazionali, traumatizzati dal dissesto delle tre principali banche del paese, ha detto che l’Islanda resta ricca di risorse naturali, e che da ora in avanti vivrà di quelle e delle altre due principali fonti di ricchezza, l’oceano ed il capitale umano. I giornali hanno avuto buon gioco a titolare sul premier che invitava i propri connazionali ad andare a pesca, ma la clamorosa insolvenza del sistema bancario islandese, crollato sotto il peso della forsennata finanziarizzazione degli ultimi anni, rappresenta un monito all’Europa ed ai suoi egoismi nazionali. Qualche numero aiuterà a meglio comprendere lo scenario.

Le tre banche islandesi coinvolte nel dissesto avevano a fine 2007 un totale di attivi pari a circa dodici volte il pil dell’isola. Chiaramente insostenibile per le forze di un solo paese. Che infatti, dopo un primo tentativo di difendere il cambio della corona, agganciandolo all’euro, è stato costretto a gettare la spugna a causa della progressiva incapienza fiscale e di riserve valutarie per fare fronte all’esposizione estera delle banche. E’ verosimile che le autorità monetarie e politiche di Reykjavik abbiano compiuto errori di sottovalutazione e si siano rese responsabili di rilevanti leggerezze sul piano regolatorio. Ma resta l’essenza di conglomerati bancari troppo grandi per essere gestiti dagli stati nazionali. Per fare altri esempi, la svizzera Ubs ha un bilancio pari a circa 2000 miliardi di franchi svizzeri, a fronte di un pil della Confederazione di soli 512 miliardi di franchi. La seconda banca svizzera, Credit Suisse, ha attivi per 1330 miliardi di franchi, e la somma dei prestiti erogati dalle due banche tocca i 640 miliardi di franchi.

Ma anche dentro l’Unione europea il problema esiste, nelle stesse drammatiche proporzioni. Un dato su tutti: le passività di Deutsche Bank, pari a 2000 miliardi di euro, sono pari all’80 per cento del pil tedesco, a la banca ha una leva finanziaria (definita come rapporto tra capitale azionario e attivi totali) che si approssima all’impressionante valore di 50. Quello di banche europee troppo grandi per fallire è un tema che impone una profonda riflessione alla Ue. Nelle scorse settimane, e prima del drammatico avvitamento della crisi dei mercati finanziari, il governo italiano ha proposto la costituzione di un fondo sovrano europeo, a sostegno principalmente dell’investimento infrastrutturale e quindi della domanda aggregata. La proposta è stata da subito avversata dai tedeschi, che temono che il fondo possa rappresentare una sorta di cavallo di Troia utilizzato dagli italiani per scaricare parte del peso del proprio debito pubblico sui paesi più virtuosi dell’Unione. Timori in astratto condivisibili, alimentati anche dall’incerta e problematica formulazione del piano. Non esistono, infatti, fondi sovrani che investono all’interno del proprio paese o area di riferimento, e la nozione stessa di fondo sovrano postula l’esistenza di una ricchezza alimentata in prevalenza da surplus di bilancia commerciale.

L’esplosione della crisi finanziaria sta contribuendo ad accelerare l’elaborazione del concetto di intervento sovranazionale, ma ancora una volta i paesi fiscalmente virtuosi si oppongono alla definizione di linee operative di salvataggio comunitario delle istituzioni finanziarie, salvo muoversi in ordine sparso con interventi di protezione dei depositi nazionali che hanno soprattutto valenza psicologica. Tutti siamo (o dovremmo) essere consapevoli del fatto che il dissesto multiplo e contemporaneo di più banche nazionali renderebbe la garanzia sui depositi un puro esercizio retorico, a fronte del crollo fiscale di un paese. E’ la “sindrome islandese”, che nei prossimi mesi si sostanzierà, per il paese scandinavo, in un crollo del pil del 10 per cento ed una inflazione del 70 per cento, secondo le più recenti stime degli economisti. Numeri che rappresentano un monito di quanto potrebbe accadere ai paesi che decidessero di far da sé di fronte a questa ed alle prossime crisi.

Che fare, quindi? L’occasione è fornita dall’esigenza di sbloccare il mercato interbancario, drammaticamente congelato. Una garanzia pubblica sull’interbancario per indurre le banche a tornare a prestarsi fondi su scadenze diverse dall’overnight rappresenta la base per costruire un sistema di garanzia europea sul mercato interbancario, tale da non tradursi in immediato impiego di fondi. E’ inoltre di tutta evidenza che l’attività bancaria è transnazionale, mentre la vigilanza è oggi nazionale. Gestendo questa pericolosa discrasia dimensionale l’armonizzazione comunitaria può trarre nuovo impulso, vincendo i timori dei paesi fiscalmente morigerati, che non vedrebbero la propria virtù (un asset comunque da difendere, per tutta l’Unione) messa a rischio da iniziative di “tax and spend” promosse dai paesi meno rigorosi. Al contempo si ridurrà la pressione delle recriminazioni politiche sulla Banca Centrale Europea, finora criticata per non possedere funzioni che semplicemente non può avere, quali quelle fiscali.

Ancora una volta, l’Europa potrebbe trarre spinta e rigenerazione da un momento di crisi, e compiere un passo avanti verso l’integrazione politica e la realizzazione di un federalismo di senso compiuto che appaiono oggi più che mai ineludibili.

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