La Cina vittima del caro-energia

di Mario Seminerio – © Libero Mercato*

Lo shock petrolifero che sta piagando l’Occidente potrebbe avere conseguenze ben peggiori sulle economie asiatiche emergenti. La rivoluzione manifatturiera della Cina e degli altri paesi della regione si è finora basata in modo determinante su ridotti costi di trasporto. La globalizzazione ha rimpicciolito il pianeta, la crisi energetica sembra destinata a tornare ad aumentarne le dimensioni. Il modello commerciale asiatico si è infatti finora basato su scambi ricardiani tra reti di paesi produttori, ciascuno intento a sfruttare il proprio vantaggio competitivo. I prodotti (anche e soprattutto quelli occidentali) vengono spediti in Cina per l’assemblaggio finale, e da qui rispediti sui nostri mercati, con margini unitari di profitto estremamente contenuti. Lo schema è entrato in crisi allo scoppio della crisi petrolifera: basti pensare al costo dei container nella tratta Shanghai-Rotterdam, ormai triplicato. A ciò si aggiunge l’effetto distorsivo dei sussidi all’energia, che hanno artificiosamente tenuto bassa l’inflazione cinese: malgrado il costo del carbone sia triplicato da inizio 2007, la Cina ha frenato l’ascesa dei costi dell’energia, drogando la crescita delle proprie aziende sane, e tenendo artificialmente in vita quelle decotte. Ciò ha solo differito la resa dei conti.

Ora che i sussidi stanno gradualmente ma inesorabilmente venendo rimossi, l’impatto sui costi è destinato a colpire con violenza. E non si tratta solo di sussidi all’energia, ma di tutta una serie di agevolazioni incompatibili con un’economia di mercato. La scorsa settimana, ad esempio, Pechino ha alzato le tariffe di trasporto cargo ferroviario di ben il 17 per cento. A questo quadro di forte accumulazione di pressioni sui costi occorre aggiungere che le fabbriche cinesi sono altamente energivore: tirando le somme, un elevato numero di imprese cinesi sono a rischio di chiusura. E lo sono anche quelle operanti in settori a basso contenuto tecnologico, come il calzaturiero. Questi prodotti sono a basso margine unitario, e stanno subendo l’effetto perverso dell’onere aggiuntivo rappresentato dai costi di trasporto intercontinentale. Secondo l’agenzia Xinhua, oltre 2300 calzaturifici hanno chiuso i battenti quest’anno nel Guangdong, la metà del totale. Una strage silenziosa mentre qui in Occidente, con gli abituali ritardi di percezione della realtà, si continuano ad invocare misure protezionistiche verso produzioni il cui flusso di importazione si sta già inaridendo autonomamente.

Negli Stati Uniti, in Nord Carolina, l’industria dell’arredamento sta venendo rivitalizzata da un inopinato flusso di ritorno di produttori che stanno chiudendo in Cina. Pechino sta subendo il triplo effetto di maggiori prezzi delle materie prime, un’inflazione salariale che viaggia intorno al 20 per cento ed una domanda di importazioni in indebolimento da parte di di Stati Uniti, Canada ed Area Euro. I critici sostengono che Pechino starebbe ripetendo gli errori del Giappone degli anni Ottanta: sovrainvestimento in impianti marginali stimolato da una politica monetaria fatta di tassi reali fortemente negativi, perseguita dal Partito Comunista per prendere tempo e consolidare consenso, in attesa di plasmare la Grande Metamorfosi del decollo industriale. Come che sia, questa epoca sembra giunta all’epilogo, sotto i colpi dell’inflazione.

Le autorità valutarie cinesi hanno comunicato che dal 14 luglio procederanno a controlli sulle fatturazioni degli esportatori, allo scopo di impedire alterazioni contabili che nascondono afflussi di capitali speculativi (il cosiddetto hot money) verso la Cina, mirati a trarre vantaggio dall’apprezzamento dello yuan. In marzo le riserve valutarie cinesi sono risultate pari a 1,68 trilioni di dollari (1680 miliardi), con un incremento del 40 per cento sull’anno precedente, non giustificabile in termini di sommatoria di saldo commerciale, investimento diretto estero e di portafoglio. Questo diluvio di liquidità nel sistema finanziario cinese alimenta forti pressioni inflazionistiche, mettendo a rischio la crescita del paese.
Gli esportatori dovranno registrare la fatturazione in valuta su un sistema elettronico monitorato dai regolatori, per accertare la corrispondenza tra fatturazione commerciale e dati sull’export. Tra gli osservatori tale misura di controllo amministrativo suscita perplessità e scetticismo, apparendo come una sorta di “ultima spiaggia” quando tutte le altre opzioni si sono rivelate inefficaci, ed un’alternativa illusoria alla rivalutazione dello yuan.

L’inflazione ufficiale è al 7,7 per cento, ma il dato non cattura la dimensione dei prezzi tenuti artificialmente bassi, dai fertilizzanti ai carburanti. L’inflazione (altra cosa che si tende a dimenticare) ruba letteralmente la crescita al futuro, e differisce la stretta monetaria fin quando le cose sfuggono di mano, che è più o meno dove ci troviamo oggi in pressoché tutta l’Asia.
Forse è presto per dirlo, ma potremmo essere al termine di una fase della globalizzazione, col rientro in Occidente di alcune produzioni. Il vantaggio comparato resta valido, ma l’inflazione energetica potrebbe presto cambiare le rotte commerciali ed invertire le scelte di localizzazione.

* (Tit.originale: “Dal rincaro dell’energia a rimetterci più di tutti potrebbe essere la Cina”)


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