Questione di affidabilità

di Mario Seminerio – © Libero Mercato

Su Libero Mercato di sabato 26 aprile il professor Francesco Forte critica la Commissione europea per la decisione di investigare la reale natura del prestito concesso dal governo italiano ad Alitalia. Per Forte non di aiuto di stato si tratterebbe, bensì di erogazione “a tassi di mercato”. A nostro avviso questa definizione di tasso di mercato rappresenta il principale fraintendimento semantico in cui molti commentatori sono finora incappati. Per meglio comprenderne i motivi è opportuno ricordare che, secondo la normativa comunitaria vigente, fino alla fine di giugno Alitalia dovrà pagare un tasso base (in regime di interesse composto) calcolato sulla base della media dei tassi swap interbancari a cinque anni per i mesi di settembre, ottobre e novembre dell’anno precedente, aumentato di 75 punti base. Il regolamento però dice che “in casi debitamente giustificati la Commissione può aumentare il tasso di più di 75 punti base per uno o più Stati membri”. Variazioni sono inoltre possibili se il movimento dei tassi comporta variazioni superiori al 15% rispetto al tasso calcolato dalla Ue. E già questa definizione suggerisce che non si tratta di “tasso di mercato”, non foss’altro perché i tassi swap a cinque anni, da novembre ad oggi, si sono mossi in modo significativo a causa della nota crisi creditizia globale.

Da luglio, Alitalia, dovrà pagare un tasso base pari al tasso lettera interbancario a 1 anno. Ma a questo potrà essere aggiunto uno spread compreso fra i 400 e i 1.000 punti base. La nuova normativa prevede infatti uno spread differenziato a seconda della qualità del rating delle aziende e della garanzie che il debitore può offrire in termini di rivalsa sugli asset aziendali. La nuova normativa appare quindi solo un tentativo “artificiale” di comparare all’andamento di mercato le condizioni di erogazione dei prestiti pubblici alle aziende. Come verrà quindi valutato il prestito ad Alitalia, secondo questa logica? Le vie della politica sono infinite, ma provate a immaginare come si comporterebbe in questa circostanza una banca commerciale. Prima di erogare il credito verificherebbe l’andamento dei conti aziendali, o perlomeno l’esistenza di un business plan in grado di raddrizzare i conti. Ad oggi nulla di ciò esiste, se non qualche assai generica manifestazione d’interesse da parte di alcuni imprenditori, verosimilmente grazie a quel formidabile catalizzatore (auspicabilmente non a carico dei contribuenti) che sarà Expo2015. Ad oggi, affermare che esiste un piano di rilancio di Alitalia, in capo ad un pool di imprenditori ed in attesa di consorziarsi con un vettore estero che ci metta l’expertise (un progetto invero assai contorto, e senza pari nell’aviazione commerciale occidentale odierna, ma fingiamo di crederci), è un puro atto di fede. E il mercato di solito non ragiona per atti di fede. Né vale paragonare il prestito pubblico ad Alitalia alle erogazioni statali ad Eads, a vantaggio di Airbus. Perché da un lato abbiamo un vettore commerciale che brucia cassa come un altoforno, ed il prestito in queste condizioni sarebbe destinato esclusivamente a ripianare le devastazioni prodotte sulla cassa dalla gestione corrente; dall’altro abbiamo il finanziamento a ricerca e sviluppo di uno dei principali poli di eccellenza tecnologica europei e mondiali, oltre alla già citata (anche da Forte) competizione con gli americani di Boeing, che si avvalgono del supporto finanziario del governo di un paese da sempre liberista e liberoscambista.

Lo scritto più informativo ed educativo su questa surreale vicenda è rinvenibile nel sito corporate di Alitalia, sezione Investor Relations: si tratta di fatto dell’ultimo documento ufficiale della gestione-Prato, la relazione consolidata del quarto trimestre 2007, pubblicata lo scorso 13 febbraio. Da cui si evinceva un ulteriore peggioramento del risultato industriale di gestione per il 2008 rispetto al piano di sopravvivenza, con forti e crescenti squilibri nei flussi di cassa della gestione corrente. Chiedere ad un ipotetico “finanziatore di mercato” di comprare un business plan che non esiste e con questa situazione finanziaria equivale ad una sola cosa: a concedere l’ennesimo aiuto di stato.

In questi giorni abbiamo letto anche editoriali scandalizzati per il fatto che il patrimonio immobiliare di Alitalia da solo sarebbe superiore al prezzo di acquisto offerto da Air France: altra argomentazione priva di significato. Una azienda può essere valutata come entità funzionante (quello che gli anglosassoni chiamano “going concern”) o a valore di liquidazione a stralcio. Il patrimonio immobiliare e più in generale i beni non strumentali di Alitalia sono correttamente valutabili solo in ipotesi di liquidazione, dato il valore fortemente negativo del capitale economico del vettore, nell’attuale assetto, prodotto dalla gestione corrente. Forte auspica che “con urgenza”, si torni ad una gestione economica affrontando, tra gli altri, il problema degli esuberi di personale, magari attraverso la cassa integrazione. Ma certamente non gli sfuggirà che il nodo Alitalia venne già affrontato dallo stesso Berlusconi nel suo precedente governo, con l’aumento di capitale riservato ad un pool di investitori finanziari italiani ed internazionali (che ha portato il Tesoro a scendere al 49,9 per cento del capitale del vettore), e con l’introduzione della cassa integrazione anche per i dipendenti Alitalia. Come sono andate le cose dopo quel tentativo di recupero di economicità della gestione, è noto. Né è possibile tacere dell’errore esiziale del governo Prodi, con tutti quegli assurdi paletti su “profili di interesse generale (livelli occupazionali, adeguata offerta dei servizi e copertura del territorio), oltre che, ovviamente, dei contenuti economici delle offerte e di una accurata analisi dei piani industriali che verranno presentati dai soggetti interessati al rilievo della quota di controllo di Alitalia”, che hanno fatto perdere 20 mesi e annichilito il residuo valore economico di Alitalia. Salvo poi, lo scorso marzo, esibirsi in un ossequioso tributo alla normativa sull’Opa e sulle privatizzazioni sentenziando che “ (…) gli impegni assunti [con Air France] non saranno vincolanti nel caso in cui uno o più soggetti lancino un’offerta pubblica concorrente migliorativa e il ministero accetti tale offerta.” Un capolavoro di ipocrisia: sarebbe bastato dunque aprire un’asta pubblica, con annesso libero accesso alla data room di Alitalia, entro tempi strettissimi, ed il problema si sarebbe risolto. Invece, il governo Prodi ha preferito giocare con i “sacri principi” delle privatizzazioni mentre si faceva condurre per mano nella trattativa dalla manomorta sindacale. Nel frattempo, una cosa chiamata mercato sta rapidamente contribuendo, dopo il de-hubbing di Alitalia, alla conversione di Malpensa da improbabile e velleitario aeroporto “hub and spoke” a forte “point-to-point”, come segnalato nei giorni scorsi dal presidente di Sea: la prima buona notizia da molto tempo.

L’unico compito del governo italiano (di qualunque governo italiano) è negoziare per mantenere la permanenza sul nostro suolo della sede di direzione effettiva di Alitalia, in modo da beneficiare i contribuenti (l’unica forma di “italianità” di cui dovrebbe importare ai politici) del ritorno all’utile del nostro vettore, se e quando. Oggi invece leggiamo ed ascoltiamo toni di preoccupante nazionalismo economico. Che del suo è già un nonsenso, ove ci si convinca che l’interesse sovrano è quello di consumatori e contribuenti. Ma che, applicato al contesto italiano ed ai suoi eclatanti fallimenti nella gestione delle imprese, appare un’autentica forma di perversione. C’è solo da sperare che tale nazionalismo non assuma le abituali forme di critica sterile all’Unione europea, che è certamente lungi dall’essere una costruzione perfetta, ma che finora si è dimostrata ben più efficace dei governi italiani nel tutelare gli interessi diffusi di contribuenti e consumatori del nostro paese.


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