Sì alle politiche pro-family, no al quoziente familiare

di Carmelo Palma e Piercamillo Falasca

Le politiche pro-family sono necessarie ma siamo sicuri che l’introduzione di un sistema di tassazione così poco neutrale come il quoziente familiare sia una buona idea?

La riduzione della pressione fiscale media sulle famiglie, che i promotori del quoziente familiare – Berlusconi in primis – indicano come obiettivo, si può ottenere anche grazie al taglio delle aliquote e all’attenuazione della progressività, senza produrre le distorsioni del quoziente. Oppure, legando il beneficio fiscale delle famiglie all’incremento del tasso di attività e di occupazione femminile e quindi del reddito familiare, con una differenziazione di genere dell’imposizione, come hanno proposto Andrea Ichino e Alberto Alesina.

A nostro giudizio, anche nella logica pro-family, il “meno tasse” deve spingere nella direzione “più lavoro e più reddito”, non in quella opposta. Con la logica del quoziente, invece, il beneficio fiscale è sostanzialmente legato al fatto che, a parità di reddito familiare, le donne non lavorino o lavorino in nero.

La famiglia non è solo una “scelta individuale” ma è anche, concretamente, una “struttura sociale”. Non per questo il favor familiae, che in Italia ha fondamento costituzionale, deve divenire il principale criterio di ordinamento della politica fiscale.

Non esiste alcuna ragione sociale o di equità per trasformare il quoziente familiare in un “premio fiscale al matrimonio”, scaricandone l’onere finanziario sulla generalità dei contribuenti. Al contrario vi è un’indiscutibile ragione economica che sconsiglia di introdurre un disincentivo fiscale all’offerta di lavoro femminile. Il tasso di inattività femminile nel nostro paese (in particolare nel sud) rimane del tutto abnome: quasi una donna su 4 tra i 25 e i 54 anni è totalmente inattiva, contro una media europea di poco superiore ad una donna su 3; del 50% superiore alla media europea è anche la percentuale delle italiane che addebitano alle incombenze familiari l’inattività occupazionale (Eurostat, dati 2006). Se poi il dato italiano viene impietosamente raffrontato a quello dei grandi paesi industriali dell’UE i risultati sono eloquenti: tra le donne inattive, la percentuale di quelle che non lavorano né cercano lavoro per “ragioni familiari” è in Italia una volta e mezza quella tedesca, tre volte quella francese, otto volte quella inglese. Il “quoziente familiare” consoliderebbe e aggraverebbe questo dato, visto che la scarsa partecipazione al lavoro delle donne non impoverisce solo le famiglie, ma anche l’economia italiana, riducendone il potenziale di crescita.

Ancora, il quoziente familiare non aggredisce il problema italiano “numero 1”, ossia il livello generale dell’imposizione, ma comporta semplicemente lo spostamento di una parte del peso fiscale da alcuni ad altri contribuenti. In più, non è vero che in Italia il vantaggio fiscale per le famiglie monoreddito con figli e coniuge a carico sia inferiore a quello di paesi che adottano meccanismi di riequilibrio su base familiare della tassazione individuale. Come risulta da uno studio dell’Ocse del 2004 relativo all’anno 2003, considerando il reddito medio di un lavoratore nel settore manifatturiero, il vantaggio fiscale di una famiglia monoreddito con due figli rispetto ad un single senza figli era in Italia del 13% circa, nel Regno Unito (senza quoziente familiare) del 14, in Francia (con quoziente) del 12, negli Stati Uniti (con quoziente, formula splitting) del 15. Cambia poco: il quoziente non funziona, di per sé, a ridurre la pressione sulle famiglie.

La famiglia italiana si lamenta giustamente del trattamento che riceve dallo Stato innanzitutto perché una parte consistente della “spesa sociale” (per la maternità, l’infanzia, la disabilità e la non autosufficienza) è di fatto a carico dei nuclei familiari, senza significativi benefici fiscali.

La spesa per la maternità e l’infanzia sul totale della spesa sociale è in Italia sotto quota 4%. Nel Regno Unito è quasi al 7. In Francia al 9. In Germania al 10. Siamo buoni ultimi in Europa, insieme alla Spagna. Quanto alla spesa di aiuto ai disabili, peggio di noi in Europa fanno solo Irlanda, Francia e Grecia. A pagare gli squilibri e le inefficienze del welfare italiano sono tutte le famiglie, ma a sopportare i costi più elevati sono le famiglie in cui entrambi i coniugi lavorano: si riduce complessivamente il tempo che i coniugi possono dedicare alle incombenze familiari e si amplia la necessità di ricorrere all’acquisto di prestazioni sul mercato privato (asilo nido, baby sitter, colf, badanti).

Se pure si volessero ancorare le politiche pro-family alla logica del “quoziente familiare”, bisognerebbe accettare che a determinare i benefici fiscali siano esclusivamente i carichi familiari (i bambini, gli anziani, i disabili), non il matrimonio in sè, né si devono escludere dai benefici quei nuclei familiari di fatto che, al di là della natura giuridica dell’unione tra i partner, si sobbarchino comunque la cura dei figli, degli anziani o dei parenti non autosufficienti.

Ci sono valide alternative al quoziente familiare. Alternative che consentono di alleggerire le spese a carico della famiglia senza deprimere l’offerta di lavoro femminile e senza ridurre “istituzionalmente” il ruolo delle donne alla cura familiare. La via migliore per le politiche pro-family passa da una “riforma istituzionale” della spesa sociale, che non si limiti ad accrescere le dotazioni finanziarie disponibili, ma sostituisca le prestazioni dirette con il riconoscimento di “buoni di spesa” (voucher) – come propone Mario Seminerio in uno studio dell’Istituto Bruno Leoni – affidate alla gestione delle famiglie e commisurate alla loro capacità reddituale. Anche in tema di welfare familiare, è la società della scelta, del privato e del mercato ad offrire le soluzioni migliori.

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