La politica estera italiana e la morale – risposta a Carmelo Palma

di Andrea Gilli

Ringrazio innanzitutto Carmelo Palma, e lo dico sinceramente, per il suo ottimo spunto di riflessione. Ciononostante, gli argomenti da lui proposti mi obbligano ad una severa risposta.

Credo che sia necessario in primo luogo distinguere tra scientificità e moralismo. I due non sono opposti di una retta che indica la buona e la cattiva analisi. La geopolitica, per esempio, è una disciplina tutt’altro che scientifica – eppure essa offre degli importanti spunti d’analisi. Il Realismo Classico di Carr, Morgenthau, Kissinger e Aron è certamente un approccio non scientifico – se misurato con gli standard moderni. Epperò la sua capacità analitica è fuor di dubbio. Si può dunque essere non scientifici o contro lo scientismo nelle scienze sociali – ciò non significa però essere moralistici. La scientificità (o il rigore logico – così da poter includere nel nostro ragionamento anche Maestri quali appunto Carr, Morgenthau, Kissinger ed Aron) serve per garantire la falsificabilità delle affermazioni e il distaccamento dell’analista dall’analisi. Analisi che partono da presupposti morali, invece, non possono che essere parziali, e ideologiche, se non totalmente errate, in quanto la morale è soggettiva, personale.

Fatta questa premessa, credo sia utile rispondere punto per punto alle obiezioni di Palma.

Il primo passo del suo testo concide con l’affermare che “[l]a rinascita, negli Usa, di un idealismo wilsoniano nel campo politico conservatore” avrebbe “coinciso (anche) con il riconoscimento di un difetto di analisi (e non solo “di cuore”) nelle politiche realistiche.” Detto altrimenti, “Bin Laden è un cazzotto che è arrivato in faccia all’Occidente senza che i chierici del realismo lo vedessero partire e prima che apparisse loro possibile.”

Già in questo primo passaggio è possibile identificare almeno due imprecisioni. In primo luogo, l’idealismo wilsoniano è una caratteristica perenne della politica estera statunitense. Se si eccettua la saggia politica estera di Nixon e, solo in parte, di Ronald Reagan, Theodore Roosvelt e George H. Bush (tutti e tre in parte corrotti da uno spirito wilsoniano di fondo), gli altri presidenti del Novecento hanno avuto un chiaro approccio wilsoniano alla politica estera americana. In area conservatrice, questa rivoluzione wilsoniana è addirittura iniziata durante l’era di Kissinger e Nixon, quando cioè il Realismo dispiegava al meglio i suoi risultati. Dunque, l’affermazione per cui i neoconservatori sarebbero emersi anche per il fallimento della Realpolitik sembra più che mai sbagliato dal punto di vista storiografico.

Il secondo problema è legato alla presunta incapacità del Realismo di prevedere l’emergere di Osama Bin Laden. Anche in questo caso, la mia impressione è che le cose stiano diversamente. Nel corso del suo articolo, Palma ricorda la contrapposizione tra l’astronomia (Kissinger) e l’astrologia (Wilson). E’ utile richiamare questa contrapposizione in questo momento per ricordare che non si può richiedere alle scienze sociali la predizione del futuro. Un economista può identificare dei trend, ma non può dire esattamente quando un certo fenomeno prenderà forma – per esempio una crisi economica. Lo stesso vale per un politologo. Questi può identificare dei pattern di comportamento o delle relazioni causali – non può dire chi, quando e dove colpirà. Questo è il compito dei servizi segreti, come è compito degli analisti finanziari capire quando avviene un crash finanziario. Mi sia permesso notare, inoltre, che, in passato politologi ed economisti sono stati di gran lunga più precisi di servizi segreti e analisti finanziari.

Il dato importante è che le analisi realiste avevano ampiamente previsto questi trend. Cito solo qualche esempio, per non essere pedante. John J. Mearsheimer, ‘Why We Will Soon Miss the Cold War’ (1990); Christopher Layne, ‘ The Unipolar Illusion: Why New Great Powers Will Rise” (1993); Kenneth N. Waltz,’The Emerging Structure of International Politics’ (1993) ; Kenneth N. Waltz, ‘Structural Realism after the Cold War’ (2000). Tutti questi autori avevano previsto che la posizione di forza relativa degli Stati Uniti sarebbe stata progressivamente soggetta a nuove e poderose sfide. Se si pensa che, nello stesso momento storico, i famosi neoconservatori (quelli esaltati da Palma, per intenderci) cantavano invece la Fine della Storia (Fukuyama, 1992), non risulta difficile capire da quale parte stia l’analisi più precisa. Senza contare che, a quanto mi risulta, durante gli anni Novanta i neoconservatori non hanno dato questi poderosi avvertimenti contro il fondamentalismo islamico. Fenomeno invece chiaramente identificato da Samuel P. Huntington con il suo celeberrerrimo The Clash of Civilizations and the Remaking of the World Order (1993). Forse è superfluo dire che Huntington è un realista.

A questa nostra risposta, Palma potrebbe controribattere che, in realtà, i vari Layne, Mearsheimer e Waltz si riferiscono all’ascesa di nuove Grandi Potenze, non del terrorismo, la vera novità del panorama internazionale – che sarebbe stato appunto completamente dimenticato dal Realismo. Rispondiamo a questa obiezione qui di seguito, prima però, è opportuno ricordare, giusto per dovere di cronaca, che un decano del Realismo come lo storico inglese Michael Howard un anno prima dell’11 settembre, affermava solennemente che, visto il disequilibrio di forze a livello internazionale, gli Stati Uniti non potevano che essere sfidati, in futuro, dal terrorismo (Howard, 2000). E ammonizioni simili erano state dispensate anche da Colin S. Gray, nel lontano 1994 (Gray, 1994).

Veniamo ora alla questione dei fenomeni non-statali, come il terrorismo. In primo luogo, credo mi sia permesso rilevare che, in sede di analisi della politica estera di uno Stato, lo strumento euristico più utile continui ad essere quello che guarda allo Stato come soggetto principale della politica internazionale. Fiamma Nirenstein discuteva l’evoluzione della politica estera italiana. Nel mio articolo, ho risposto esaminando la politica estera dell’Italia. Si può credere che il Realismo sia fuori moda, ma se si vuole analizzare la politica di uno Stato non è logicamente possibile prescindere dallo Stato medesimo. Quindi la critica qui avanzata è pertinente nei confronti del Realismo in quanto tale. Lo è meno nei confronti del mio articolo. Ciò detto, credo che Palma abbia ragione nel dire che la politica internazionale è plasmata da un numero elevatissimo di fattori e che quindi una lettura statale sia riduttiva. Aggiungo, però, che qualunque lettura differente sia ancora più riduttiva – e quindi guardando agli Stati continuiamo ad avere la prospettiva migliore.

Il terrorismo è un fenomeno datato. Martin Laqueur (1996), nel lontano 1996 rilevava come alla fine del XIX secolo l’opinione pubblica mondiale fosse terrorizzata dal fenomeno terrorista. Principi, re e governanti cadevano in continuazione sotto i colpi del terrorismo anarchico e insurrezionalista. Vi era perfino la globalizzazione economica, il cui livello di interscabio, interrotto con la Prima Guerra mondiale, sarebbe stato raggiunto nuovamente solo nel 1974. Eppure nessuno si sognerebbe di interpretare la politica mondiale dell’epoca sotto un’ottica diversa da quella statuale (o imperiale). Le grandi svolte di politica internazionale erano tutte dettate dagli Stati, e allora per capire la macro-storia del tempo bisogna guardare agli Stati. La mia opinione è che lo stesso valga oggi.

In ogni caso, il dibattito sulla fine del ruolo dello Stato moderno, in campo internazionale, è abbastanza lungo. A sostenere questa tesi sono stati soprattutto gli autori marxisti, postmoderni e critici – che vedevano in questo processo una possibile opportunità per ristabilire la dominazione della classe lavoratrice (con eccezione fatta per Kenichi Ohmae, le cui teorie iperliberiste sulla fine dello Stato hanno avuto tanto successo da non essere ricordate e conosciute più da nessuno). La mia impressione è però che tutta questa discussione sia molto inflazionata. Due giorni fa ci sono state le elezioni in Italia. Gli italiani, un popolo nazionale, hanno votato per il loro governo, anch’esso nazionale. Non ricordo di votare per altri esecutivi, se non di livelli politici inferiori. Anche l’andamento dell’economia è guardato dagli individui (meglio: cittadini) attraverso le lenti nazionali – tutta la campagna elettorale è stata basata sull’andamento negativo dell’economia… italiana. Quando parliamo di declino ci riferiamo… al declino italiano. Gli altri Paesi non fanno molta differenza (si pensi agli americani che guardano ai loro posti di lavoro – non certo a quelli altrui). La ragione è semplice: gli Stati continuano ad essere gli attori politici di riferimento. Con l’11 settembre, più che una dissoluzione dello Stato, per mano di forze non statuali, abbiamo visto il suo rafforzamento. I cittadini americani non hanno chiesto alle chiese, alle multinazionali, alle organizzazioni non governative o all’ONU di essere protetti dal terrorismo. Si sono rivolti al loro Stato. Che da quel momento ha fatto due guerre – di nuovo, contro due Stati (Afghanistan e Iraq) spendendo, sempre in qualità di Stato, 3.000 miliardi di dollari (centesimo più centesimo meno). Quindi, non so Palma a cosa si riferisca quando afferma che gli equilibri internazionali sono “in larga misura influenzati da potenze (politiche, economiche e militari) che non sono nè nazionali nè statuali”. Sulla forza militare mi sembra evidente l’inutilità della discussione – basta prendere gli annuari del SIPRI e dell’IISS per vedere chi spende di più in difesa. A livello economico, mi sembra che il discorso fatto poc’anzi valga sempre. E’ vero che le società multinazionali sono tremendamente importanti. Ma non mi sembra che esse siano ancora riuscite ad ottenere la loro sovranità. Tutt’altro. Inoltre, si pensi a due semplici elementi. In primo luogo, le aziende hanno bisogno di stabilità internazionale. Stabilità significa sicurezza – sicurezza significa Stato, o Stati, che mantengono l’equilibrio mondiale. Non sono i commerci che portano la pace. E’ la pace, imposta con la forza, che porta i commerci (Gowa, 1995; Copeland, 2000). In secondo luogo, si pensi a quanto molte aziende siano dipendenti dagli Stati – l’industria della difesa è probabilmente l’esempio più palese.

Sulle potenze politiche si può, e forse deve, fare un ragionamento più ampio. Nel Medio Oriente, per esempio, non ci sono Grandi Potenze. Ci sono, però, grandi ideologie che cercano di plasmare la regione, e movimenti, non statuali che ne sono il braccio esecutivo (come il terrorismo). Ciò ha portato molti a rilevare, come fa anche Palma, l’obsolescenza dello Stato a favore di nuove forme di rappresentanza politica. La mia analisi è un po’ diversa. In Medio Oriente non ci sono Grandi Potenze semplicemente perchè le altre Grandi Potenze hanno sempre impedito che ciò avvenisse – perchè era nei loro interessi non avere potenze egemoni in quella regione (Mearsheimer, 2001). E ciò ha ovviamente avuto pesanti conseguenze sullo sviluppo politico e sociale del Medio Oriente medesimo (Krause, 1996). Il dato importante è che la situazione attuale è stata causata da Stati. Ma ancora più importante è rilevare gli obiettivi di queste grandi ideologie e movimenti non-statuali. Cosa vuole Hamas? Cosa vuole al-Qaeda? Risposta: uno Stato. Hamas vuole uno Stato in Terra Santa. Al-Qaeda vuole lo Stato (perchè quello c’è già) dell’Arabia Saudita. O questi signori non sono intelligenti, oppure tutto ciò suggerisce che lo Stato sia ancora il principale attore della politica internazionale, tanto che chi non c’è l’ha, lo vuole. Come rileva Waltz, fin quando gli Stati saranno i principali (in termini relativi) centri di potere politico, economico e militare, non c’è ragione per pensare che il loro cammino sia finito. E difatti il loro cammino è tutt’altro che terminato.

Il terzo punto sul quale si concentra Palma riguarda la relazione tra analisi e morale. “Non capisco […] per quale ragione di metodo la dottrina realistica escluderebbe la “responsabilità morale” della politica verso scelte che incidono, più o meno direttamente, sulla vita e sulla libertà umana, quando gli effetti di queste scelte si consumano al di fuori dei confini nazionali.” Prima di proseguire oltre, conviene spiegare un fondamentale assunto (che per me è un dato di fatto). Le comunità politiche possono avere due tipi di etica. Un’etica comunitaria – volta ciò alla massimizzazione del benessere della comunità medesima (e quindi dei suoi membri). E un’etica cosmopolita. L’azione è volta al miglioramento del benessere di tutti gli individui di tutte le comunità. Il problema della seconda visione è pratico. I beni sono scarsi, in primo luogo. Quindi tutti non possiamo avere tutto. Altri beni sono addirittura “competitivi” – o si hanno, o non si hanno. Se uno Stato vuole avere il mare, e finora non ha sbocchi sul mare, l’unica cosa che può fare è sottrarre una fetta di terra a qualche concorrente. Ma soprattutto, e questo è il nocciolo della questione, gli individui si riuniscono in gruppi per proteggersi dall’ambiente esterno. Così sono nati i clan, poi le tribù, e poi via via le Città-Stato, gli Imperi, e poi gli Stati. Ogni individuo compete all’interno della sua comunità (per maggiori risorse, potere, etc.). Questi sa però, anche, che il miglioramento della posizione relativa della sua comunità è condizione sine qua non per il miglioramento della sua stessa posizione all’interno di quella comunità medesima. Fare l’operaio in Svizzera è un po’ diverso che farlo in Cina. Gli individui, dunque, a parità di condizioni, danno un peso maggiore al benessere dei membri della loro comunità rispetto ai non-membri. Prima di sfamare i figli altrui, pensiamo a sfamare i nostri. Questo è un dato di fatto. Il Realismo ne prende solamente atto. Talvolta gli Stati si comportano diversamente, preferendo un’etica cosmopolita – dopo poco, però, tornano sui loro passi. La voglia di ritirarsi dall’Iraq, d’altronde, non è altro che il riflesso della maggior importanza data ai propri figli che a quelli altrui, alla propria libertà e sicurezza, piuttosto che a quella degli altri, etc. Il Realismo prende atto che gli individui tendono ad avere una visione comunitaria e quindi ad agire di conseguenza. Come strumento d’analisi, ma anche filosofia politica, prende il mondo per quello che è, per migliorarlo. Non lo prende per come vorrebbe che fosse.

A questo punto conviene riprendere la la già anticipata contraddizione tra astronomia e astrologia. Prima di concentrarci sulla natura morale, di una posizione che si dice amorale, guardiamo ai fatti. In precedenza abbiamo già ricordato la capacità analitica del realismo e la sua forza predittiva. Un esempio più recente può però essere più efficace, specie per capire la moralità del Realismo e il moralismo dei neoconservatori. La guerra in Iraq venne combattuta per portare pace e democrazia non solo in Iraq ma in tutto il Medio Oriente. Chi si opponeva era visto come un sostenitore di Saddam, una Cassandra, un perfido egoista che non voleva dare agli iracheni le nostre stesse libertà, o addirittura come l’Axis dell’Appeasement. Guardiamo cosa diceva questo Axis of Appeasement, sulla base dei suoi schemi concettuali, cinque anni fa. Ryan Crocker, che adesso i neoconservatori hanno il coraggio di ergere a loro mito, era al Dipartimento di Stato. Con Colin Powell era tra quelli che suggerivano cautela, l’Axis of Appeasement. E proprio per Colin Powell preparò addirittura un memo sulla Guerra in Iraq. Diceva che l’abbattimento di Saddam avrebbe rischiato di favorire tensioni etniche e settarie, che i sunniti difficilmente avrebbero rinunciato in fretta al loro potere, e che gli Stati confinanti avrebbero da subito cercato di influenzare il corso degli eventi. Considerazioni analoghe erano state avanzate da Jack Snyder (2003), John J. Mearsheimer e Stephen M. Walt (2002 e 2003), Ivan Eland (2002 e 2002), Andrew J. Bacevich (2004), Michael C. Desch (2002) e da tutta una serie di studiosi ruiniti nella Coalition for a Realistic Foreign Policy. Ora proviamo a prendere le previsioni dei vari Max Boot, Robert Kagan, Irving Kristol, Norman Podhoretz e così via. E soprattutto, guardiamo dove è l’Iraq oggi, e dove è il Medio Oriente, e dove invece ci dicevano che sarebbero stati. Vediamo dunque se all’astronomia del realismo preferiamo davvero l’astrologia delle illusioni.

Sulla base di queste verità fattuali, della forza predittiva del Realismo, e della sua migliore affidabilità per ottenere i risultati sperati, sulla base della sua etica della responsabilità, dunque, dico che sì, il Realismo ha una morale. Lo dico da cittadino, non da analista. E dico che questa morale mi pare porti risultati nettamente superiori a quelli del moralismo manicheo dell’ideologia neoconservatrice.

Concludo dunque dicendo che, da analista, il Realismo (nelle sue varie componenti) è lo strumento analitico più efficace che abbiamo. Da politico, dico che le indicazioni delle analisi realiste non solo sono quelle più utili per capire la realtà, ma anche quelle più responsabili. Il Realismo, guarda alla forza come fattore primario della politica internazionale, ma poi suggerisce, come disse proverbialmente Nicolò Machiavelli, cautela e soprattutto prudenza nel suo uso. Esattamente l’opposto delle ideologie come quella neoconservatrice che pretende di guardare alle idee, ma poi non ha una sola esitazione nell’usare in maniera indiscriminata la forza.

Da universitario fresco del suo secondo anno di studio, mi ricordo un Giuliano Ferrara che usava dire: le ideologie che vogliono portare il paradiso in terra, hanno sempre portato l’inferno. Anche alla luce dei suoi assunti marxisti, non capisco in cosa il neoconservatorismo dovrebbe fare eccezione, visto che vuole esattamente portare il paradiso in terra, ma finora è solo riuscito a portare l’inferno sulla terra, e tanti terrestri in paradiso.

Ma non solo, a cinque anni di distanza dalla guerra in Iraq, la posizione relativa degli Stati Uniti si è solo erosa, e gli iracheni difficilmente stanno meglio di come stavano sotto Saddam. Quelli che sono ancora vivi hanno, forse, delle speranze. Ma chissà quando si realizzeranno. Senza contare che con una politica diversa, forse, era possibile ottenere risultati migliori. Di sicuro non si poteva fare peggio. 

Possiamo dunque decidere se avere chiarimenti morali nelle politiche estere, o politiche estere eticamente responsabili ed efficaci. La scelta, ovviamente, è della politica – a cui il mio scritto era indirizzato.

ps: essendo già stato molto prolisso, ho evitato di rispondere ad un’altra dubbia affermazione di Palma per il quale “chi fa professione, ancorché modesta, di liberalismo politico dovrebbe tenere il ‘realismo’ in gran dispetto”. Sono ovviamente di opinione diversa, rimando per questo motivo ad uno straordinario pezzo di Daniele G. Sfregola, ‘Alla Scoperta del Liberalismo Realista’ (2006). A proposito, si veda anche Robert G. Gilpin, ‘No One Loves A Political Realist’ (1996), e Nicholas Rengger, ‘Cartesian Realism? Raymond Aron’s Marriage of Liberalismo and Realism (2007).

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