di Mario Seminerio © Libero Mercato
Contrariamente agli entusiasmi con cui è stata accolta in Occidente da (quasi) tutti, la prima sconfitta del presidente venezuelano Hugo Chavez in una consultazione nazionale non sembra destinata a fermare la marcia dell’autocrate di Caracas verso la fatale socializzazione dell’economia venezuelana. Infatti, Chavez, può ancora contare sul controllo di tutti i 167 seggi del Congresso e dei 32 membri della Corte Suprema, oltre a disporre dei poteri esecutivi per governare a colpi di decreto almeno fino a luglio 2008. Con questi strumenti, egli potrà tentare di attuare almeno alcuni dei punti dell’agenda di “riforme” bocciate nella consultazione del 2 dicembre. Anche se la costituzione venezuelana impedisce al presidente di proporre gli stessi emendamenti per la seconda volta, Chavez potrebbe comunque far eleggere un’assemblea costituzionale, aggirando di fatto il divieto. Nel frattempo, le “riforme socialiste” vanno avanti.
Il ministro del lavoro, José Ramon Rivero, ha chiesto a Chavez di creare un fondo pensione per lavoratori sprovvisti di copertura della sicurezza sociale (idea di per sé neppure malvagia), mentre un gruppo di imprenditori filo-presidenziali ha sollecitato la riduzione dell’orario di lavoro, che il referendum bocciato portava da otto a sei ore al giorno. I poteri conferiti a Chavez dall’Assemblea Nazionale nel 2001 hanno finora condotto all’adozione di misure quali la riforma agraria, che permette al governo di confiscare imprese agricole definite “sottoutilizzate” da un apposito comitato pubblico. Sopravvissuto nel 2003 ad un tentativo di putsch conseguente a questa riforma, Chavez ha proseguito indisturbato nella manomissione dei meccanismi fondamentali di funzionamento dell’economia, esacerbandone gli squilibri.
Dopo la fine dell’ultima recessione, nel 2004, l’economia venezuelana ha iniziato a realizzare tassi di crescita del pil dell’ordine del 12 per cento medio, grazie alla rendita petrolifera che ha alimentato la moltiplicazione per quattro della spesa pubblica e la forte ascesa della domanda dei consumatori. Ma al contempo otto anni di politiche economiche socialiste, compresi controlli dei prezzi e nazionalizzazioni, hanno lasciato il Venezuela senza latte e carne, con un tasso d’inflazione al 21 per cento (il maggiore della regione ed uno dei pochi a doppia cifra rimasti al mondo), ed il prevedibile crollo degli investimenti esteri. Chavez, in modo alquanto rozzo, ha finito col basare tutto il suo “esperimento” di economia socialista sulla rendita petrolifera. Se i prezzi del greggio dovessero calare, per qualsivoglia motivo, il paese sudamericano si troverà sprovvisto di beni di consumo, sia prodotti internamente che importati.
Passiamo in rassegna le principali nefandezze economiche dell’occupante di Palazzo Miraflores. Il primo posto spetta di diritto ai controlli sui cambi, introdotti nel 2003, che hanno puntualmente causato la nascita di un fiorente mercato nero valutario, dove il bolivar vale un terzo del cambio ufficiale contro dollaro. Questa misura ha causato un aumento del costo dell’import ed ha costretto il governo ad imporre controlli sui prezzi dei generi alimentari di prima necessità, quali riso, olio e zucchero, misura che aggrava ulteriormente la penuria.
La fortissima espansione della spesa pubblica, alimentata anche dai proventi petroliferi, ha causato vistosi incrementi dei salari. In un sistema di prezzi di mercato, ciò avrebbe determinato un inevitabile processo di aggiustamento per mezzo dell’inflazione. La presenza di controlli sui prezzi, invece, influisce per altre vie sui comportamenti degli agenti economici: i produttori non hanno incentivo a portare la propria produzione sul mercato a prezzi non remunerativi, e quindi tagliano i livelli di attività. Quelli che continuano a produrre lo fanno per esportare oltre confine, soprattutto in Colombia, o per alimentare un fiorente mercato nero. Fenomeni simili a quelli che l’Iran sta sperimentando nell’ambito del mercato domestico dei carburanti.
Dal 2005 Chavez ha poi avviato una riforma agraria che consiste nell’assegnare terre coltivabili a cooperative attraverso un sistema di prestiti che di fatto sono erogazioni a fondo perduto. La tecnica è quella classica: esproprio parziale di grandi tenute agrarie a prezzi “politici”. Anche la retorica è sempre quella: lotta di classe e raggiungimento dell’autosufficienza agricola. L’elevata incertezza ha quindi spinto le aziende agricole, costantemente sotto la spada di Damocle dell’esproprio, a contrarre fortemente la propria produzione, spesso avvicinandola a livelli di mera sussistenza dei proprietari, ai quali è precluso l’accesso al credito delle banche statali in caso di superficie coltivata superiore ai 100 ettari. Il risultato di tali condizioni ha già iniziato a manifestarsi, con l’immediato calo della produzione di alimentari. Nell’era del boom delle quotazioni di canna da zucchero e mais, guidate dalla nuova grande sete di etanolo che viene dagli Stati Uniti, la produzione venezuelana di canna di zucchero sta cedendo vistosamente.
Sequestri di terre coltivabili, sradicamento violento della tutela dei diritti di proprietà, introduzione di controlli sui prezzi, mercato nero, contrabbando, svalutazione del cambio, crescenti deficit pubblici per acquisti sussidiati dallo stato, monetizzazione del deficit pubblico ad opera di banche centrali sottoposte a controllo governativo, iperinflazione. Sono tutti i passaggi da libro di testo della discesa agli inferi dell’economia venezuelana. La “malattia olandese”, il processo di progressivo ridimensionamento della manifattura causato dalla scoperta e sfruttamento di ingenti giacimenti di idrocarburi, colpisce il paese sudamericano in modo amplificato dall’analfabetismo economico che da sempre caratterizza gli adepti del credo marxista. L’esito di questa sprovvedutezza (per usare un eufemismo) sarà l’ennesima punizione della popolazione.
Ma noi possediamo facoltà divinatorie, e sappiamo cosa accadrà al momento della resa dei conti per Chavez ed il suo emulo boliviano, Evo Morales. La colpa sarà invariabilmente dell’Occidente, che affama e sfrutta i poveri della Terra. E quest’alibi troverà entusiastici sostenitori anche da noi, tra i terzomondisti compulsivi che ignorano i fondamentali dell’economia.
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