Osservatorio sui miti del riscaldamento globale/2: La teoria del freddo caldo

di Andrea Asoni e Piercamillo Falasca

Questo focus è liberamente scaricabile qui: epistemes_freddocaldo.pdf

Qualche giorno fa è iniziata a Bali la tredicesima conferenza mondiale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Quasi diecimila delegati in rappresentanza di 190 governi si confronteranno fino al 14 dicembre per tracciare il percorso che porti ad un accordo che sostituisca – a partire dal 2012 – il Protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni inquinanti.
Il 2 dicembre, intervenendo sul Washington Post, il segretario dell’ONU, Ban Ki-Moon, ha scritto: “We have read the science. Global warming is real, and we are a prime cause. We have heard the warnings. Unless we act, now, we face serious consequences.

All’indirizzo http://www.numberwatch.co.uk/warmlist.htm trovate un lungo elenco di conseguenze attribuite al global warming: dagli arresti cardiaci alla bancarotta mondiale, dai lupi che mangerebbero meno ai lupi che mangerebbero più alci, dall’aumento dei prezzi alimentari al sesso dei coccodrilli, dal calo delle circoncisioni alle eruzioni vulcaniche, dalla riduzione della dimensione dei cervelli umani alla distruzione dei templi buddisti, dall’aumento delle foreste alla riduzione delle foreste. Nelle prossime settimane Epistemes verificherà le fonti di molte di queste notizie. Gli autori invitano i lettori a fare lo stesso. Alcuni link proposti nell’elenco non funzionano, ma sono comunque utili come tracce da ricercare.

Su tutti i fenomeni di cui il riscaldamento globale sarebbe responsabile, tra i più interessanti vi è senza dubbio il global cooling, vale a dire il raffreddamento globale. Contrariamente a quanto possa apparire ad un primo impatto, l’idea che l’aumento della quantità di CO2 nell’atmosfera possa produrre come risultato – attraverso una serie di passaggi su cui torneremo di seguito – un abbassamento delle temperature, ha avuto ed ancora ha un cospicuo numero di sostenitori nel campo ambientalista. Tra questi non poteva mancare Al Gore, la cui posizione – anche in questo caso – è un fattore determinante di influenza per l’opinione pubblica. Eppure proprio la “storia” di questa teoria del raffreddamento costituisce una prova della debolezza scientifica dell’ambientalismo ideologico ufficiale.

Arriviamoci per gradi. Sin dal 1999 (in particolare grazie ad un articolo pubblicato il 21 luglio di quell’anno sull’autorevole rivista Nature), inizia a fare breccia tra sostenitori e allarmisti del riscaldamento globale la teoria secondo cui il rapido scioglimento del ghiaccio della Groenlandia possa immettere nell’oceano una quantità enorme di acqua fredda, tale da rallentare e infine interrompere la Corrente del Golfo del Messico, quel nastro trasportatore (definito meccanismo termoalino) che trasferisce calore dal Mar dei Caraibi all’Artico e che permette al clima dell’Europa di essere estremamente mite nonostante la sua latitudine (forse non molti sanno che la Gran Bretagna ha la stessa latitudine del nord del Quebec e che Napoli e New York sono sullo stesso parallelo). Come risultato, il nord del Vecchio Continente verrebbe coperto da una coltre di ghiaccio, l’intero emisfero settentrionale si troverebbe stretto nella morsa del freddo e sulla Terra calerebbe una nuova era glaciale.
Nel gennaio 2004 a New York City, in uno dei giorni più freddi della storia della Grande Mela, Al Gore sembra aver già fatto sua la teoria: “The extreme conditions are actually the end result of the planet warming. The Bush policies are leading to weather extremes.

La conferma della teoria arriva dallo studio di Harry Bryden (National Oceanography Centre britannico), che – nel novembre del 2005 – rende pubblici su Nature i suoi risultati: dal 1957 al 2005, la corrente del Golfo avrebbe perso circa il 30% della sua forza; la gran parte di questo calo di intensità si sarebbe verificato dal 1992 in poi. Di questo passo, nel giro di pochi decenni si dovrebbe giungere allo spegnimento della corrente.

Il risalto mediatico del lavoro di Bryden è immediato. “Alarm over dramatic weakening of Gulf Stream” titola The Guardian il primo dicembre. La teoria dell’indebolimento della corrente del Golfo e dell’imminenza dell’abrupt climate change trova immediatamente il favore della scienza ufficiale, anche nel nostro paese. Nel gennaio 2006, intervistato dall’Apcom, il Direttore del Progetto Clima Globale dell’Enea, Vincenzo Ferrara, dice: “Quello che sta succedendo da qualche anno, è che la Corrente del Golfo sta rallentando perchè nell’Oceano Atlantico è aumentata la percentuale di acqua dolce. Questa impedisce all’acqua calda, più salata, che viene dal Golfo del Messico, di proseguire verso Nord, che alla fine sprofonda o viene deviata e costretta a rimanere nelle zone subtropicali. Più è dolce l’acqua, più la Corrente del Golfo rallenta.” E poi: “Ora questo rallentamento può andare avanti anni, ma arrivati ad un certo punto non rallenta più e la corrente si interrompe bruscamente e, non portando più calore nell’Atlantico settentrionale, può causare il raffreddamento dell’Europa del nord e creare le condizioni per una glaciazione“.

In un certo senso, la teoria dell’interruzione della corrente del Golfo chiude un cerchio: permette agli allarmisti di includere nella più generale dottrina del riscaldamento globale anche l’evidenza empirica – apparentemente contraddittoria – delle massicce ondate di freddo che si abbattano sull’emisfero settentrionale. La posizione di Al Gore ha ora una robusta copertura scientifica.

A poche settimane dalla pubblicazione dello studio di Bryden, la solidità della teoria inizia a scricchiolare, anche grazie al fatto che la letteratura scientifica ha iniziato a beneficiare di sempre più dati in materia. Praticamente tutti gli articoli pubblicati dall’inizio del 2006 concordano nell’ammettere l’impossibilità di verificare l’influenza umana nella riduzione della circolazione termoalina e nella improbabilità di una sua interruzione improvvisa.
Forse il primo articolo dichiaratamente scettico sulle conclusioni di Bryden è quello di Quirin Schiermeier apparso il 19 gennaio 2006 sempre su Nature, con il titolo “Climate change: A sea change”. Queste le considerazioni dell’autore: le simulazioni al computer suggeriscono che la quantità di acqua dolce necessaria a bloccare la circolazione termoalina avrebbe un ordine di grandezza molto più grande delle attuali stime sullo scioglimento dei ghiacci; i dati sull’immissione di acqua dolce nell’oceano – cui pure Bryden si riferisce – sono tali da rendere altamente improbabili cambiamenti nel corso dei prossimi cento anni; i risultati di Bryden potrebbero essere determinati da variazioni naturali. Se il riscaldamento globale fosse tale da causare l’interruzione della corrente del Golfo prevista dall’oceanografo britannico, allora avrebbe una magnitudo tale anche da inibire un aumento eccessivo della coltre di ghiaccio sull’Europa: in questo caso, l’effetto complessivo sarebbe una riduzione del riscaldamento globale (ossia, una buona notizia); in ogni caso, una interruzione del meccanismo termoalino avrebbe anche conseguenze diverse dal raffreddamento dell’Europa – come intensi eventi alla El Niño e il riscaldamento dell’Alaska e dell’Antartide – tali da rendere unpredictable l’effetto finale.

Queste ed altre posizioni scettiche sulla scientificità dello studio di Bryden non ostacolano Al Gore dall’includere la teoria della fine della corrente del Golfo nel suo film An Inconvenient Truth, lanciato nel maggio del 2006, e a pagina 150 del libro che accompagna la pellicola, come nota l’elenco di incongruenze dell’opera di Gore redatto da Iain Murray del Competitive Enterprise Institute di Washington. Inutile nascondere l’impatto sull’opinione pubblica di una teoria che abbia ricevuto l’imprimatur dell’ex-vice presidente Usa, quasi presidente, poi premio Oscar (proprio per il film in questione) e da poco premio Nobel.
Eppure proprio dall’International Panel on Climate Change, che con Al Gore divide il premio Nobel, arriva una posizione completamente diversa: l’organismo dell’Onu crede nella riduzione di intensità del meccanismo termoalino, ma ritiene assolutamente improbabile una sua interruzione.
It’s one of the good news things in the climate story,” dichiara Andrew Weaver, ricercatore canadese e responsabile del capitolo sulle correnti oceaniche del rapporto dell’IPCC: “To be perfectly honest, it’s difficult to fathom a mechanism that could cause its collapse.”

Negli ultimi due anni la previsione di Bryden è stata completamente smentita dagli studi effettuati. L’interruzione della corrente del Golfo richiederebbe cambiamenti fondamentali nella rotazione della terra o nella direzione dei venti; cambiamenti degni di un film di fantascienza (che è forse quello che Al Gore cerca di proporci). Alla domanda “Può il global warming fermare la corrente del Golfo e causare una nuova era glaciale?” il Max Planck Institut für Meteorologie risponde così: “The short answer is ‘No’. So long as the Atlantic is surrounded by continents, the Earth continues to turn, and the trade winds continue to blow, the Gulf Stream will exist – the Gulf Stream itself cannot stall. It is equally unlikely that man-made global warming will result in a global cooling comparable to that of the last ice age”. Dal MIT, il professor Carl Wunsch è – se possibile – ancora più esplicito: “the notion that the Gulf Stream would or could “shut off” or that with global warming Britain would go into a new ice age are either scientifically impossible or so unlikely as to threaten our credibility as a scientific discipline if we proclaim their reality.

La teoria catastrofista dell’interruzione della corrente del Golfo è stata ulteriormente smentita dall’analisi di nuovi dati. Non solo non si può ritenere probabile una interruzione del meccanismo termoalino, ma è addirittura dubbia l’ipotesi di una riduzione di intensità dello stesso. Il calo del 30% stimato da Bryden sarebbe dovuto ad una misurazione troppo circoscritta del fenomeno. Dall’analisi dei dati provenienti da 19 stazioni di misurazione nell’Oceano Atlantico, non è emersa alcun rallentamento della corrente. Ad ottobre, l’oceanografo tedesco Martin Visbeck riporta alla rivista Science le conclusioni di un seminario tenutosi sull’argomento, dichiarando che il 95% degli scienziati presenti è d’accordo nel ritenere che non vi sia alcun cambiamento significativo nella circolazione atlantica. Uno studio ancora più recente ha addirittura trovato che, in anni recenti, invece che diminuire la salinità delle acque del Nord Atlantico è aumentata; insomma nessuna evidenza a favore di questa teoria ma una ulteriore smentita.

Nonostante tutto, grazie al marchio impressole da Gore, lo spegnimento della corrente del Golfo è ormai entrata a pieno titolo nel portafoglio dell’allarmismo ufficiale. Viene evocato a Bali e richiamato periodicamente sulla stampa internazionale. Non mancano continui nuovi studi pronti a corroborare la teoria di Bryden. Le fondamenta scientifiche dell’ambientalismo sono davvero poco solide, ma la sua forza ideologica è (per ora) pericolosamente granitica.

I commenti sono chiusi.

Scopri di più da Epistemes

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continue reading