Il fallimento di Annapolis

di Andrea Gilli e Mauro Gilli

Gli Stati Uniti stanno tentando per l’ennesima volta di risolvere il conflitto israelo-palestinese. In passato ci avevano già provato Carter e Clinton. Entrambi hanno fallito. Il Presidente Bush gioca ora la sua unica carta, sperando così di regalare alla storia un motivo per cui rimpiangerlo. A nostro modo di vedere, il summit di Annapolis non sarà in grado di portare ad alcun risultato significativo né nel breve né nel lungo periodo. La pace tra israeliani e palestinesi dovrà ancora attendere.

Il conflitto israelo-palestinese: un conflitto come tutti gli altri

Il primo punto da cui partire è che il conflitto israelo-palestinese è un conflitto come tutti gli altri. Ci sono due attori, che lottano per imporre la loro volontà sull’altro. E ci sono degli altri attori esteri che li sostengono. Allo stesso tempo, tanto la fazione israeliana quanto quella palestinese sono divise al loro interno tra una miriade di posizioni e fazioni contrastanti.

Questi sono i dati da cui bisogna partire. Tutto il resto è ininfluente, o volutamente provocatorio. Il ruolo della religione, del sionismo, dell’islamismo, il dibattito su chi abbia abitato per primo la Terra Santa e così via sono tutti argomenti molto interessanti. Ma anche irrilevanti ai fini della comprensione del conflitto, e soprattutto per il raggiungimento della pace.

Quando si ha una pace

Date queste premesse, è utile ragionare innanzitutto su cosa sia la pace, e su quando e come essa venga raggiunta. Negli studi internazionali, si è recentemente assistito al bizzarro tentativo di definire concettualmente la pace “giusta”, “vera”, “duratura”. In questa sede, tratteremo il termine pace in modo serio, lasciando dunque ad altri queste divagazioni inutili e un po’ ridicole. Per pace intenderemo niente di più e niente di meno del suo stesso significato etimologico: assenza di guerra.

La pace si ha dunque quando due attori decidono di sospendere la guerra come strumento della politica per trovare un accordo. Si noti che questi non decidono di abbandonare la violenza – essi decidono di sospenderla. Solitamente si giunge a questa fase quando il risultato del campo (lo scontro militare) ha dato un esito che difficilmente può essere modificato nel breve e medio periodo. Di conseguenza, sia le leadership dei due gruppi sia le popolazioni che vi fanno parte convengono tanto sull’opportunità di abbandonare la violenza quanto sulla necessità di prendere atto di quanto sancito “sul campo”.

Il confronto militare verifica dunque le posizioni di forza relativa delle parti. Parti che, non va dimenticato, sono mosse dalla comune volontà di imporre all’altra la propria pace. Il più forte avrà la meglio, il più debole sarà sottomesso. Quest’ultimo, non avendo possibilità di opporsi, accetterà i suddetti termini almeno fino a quando non sarà in grado sfidare nuovamente il vincitore.

Perché palestinesi e israeliani non possono giungere ad una pace

Da quanto abbiamo detto in precedenza, appare chiaro innanzitutto che i sogni di una pace perenne tra palestinesi e israeliani sono da mettere nel cassetto. La pace, come ricordato, è semplicemente una frazione tra momenti di guerra. E la guerra è la continuazione della politica. Pensare che non ci sia guerra significa pensare che non ci sia politica – ovvero che gli uomini smettano di essere ciò che sono, uomini.

Dal paragrafo precedente si possono però evincere chiaramente anche le ragioni del fallimento del vertice di Annapolis. In primo luogo, tra palestinesi e israeliani non c’è finora stato nessuno scontro conclusivo. Anche le famose guerre del 1948, del 1956, del 1967 e del 1973 sono state tutte interrotte – vuoi dal diritto internazionale, vuoi dall’interferenza delle Grandi Potenze. Conseguentemente, non si è mai avuto un vincitore chiaro. La guerra del 1967 è il caso più evidente. In sei giorni Israele ha letteralmente disintegrato le strutture militari di Egitto, Siria e Giordania. Eppure, quella velocità fu in parte dovuta all’esigenza di bruciare sul tempo le Nazioni Unite. Paradossalmente, l’interferenza americana e sovietica da una parte e dell’ONU dall’altra ha quindi sistematicamente evitato il raggiungimento di una vittoria chiara e conclusiva. Così, tutte e due le fazioni hanno continuato a rivendicare la propria superiorità militare e politica. I palestinesi, non essendosi mai sentiti totalmente sconfitti, non hanno mai accettato i termini proposti dagli israeliani. Questi ultimi, invece, si sono sempre erroneamente visti come vincitori assoluti del gioco. Nessuno dei due aveva ragione.

Il vertice di Annapolis non differisce molto pertanto dai precedenti tentativi. Israele arriva al tavolo delle trattative pensando di aver già “dato” tanto. I palestinesi pensano dall’altra parte di aver già “sofferto” troppo. Entrambi, comunque, credono di potersi sedere al tavolo in qualità di “vincitori”. Per questo motivo, entrambi avanzano pretese, ma nessuno è disposto ad accettare compromessi. Per decidere chi deve fare il passo più grande sarebbe necessario uno scontro militare – ma nessuno, Stati Uniti in primis, ha interesse ad accettare una tale ipotesi.

Proprio questo punto ci porta alla seconda ragione del nostro pessimismo. Come detto, la pace si raggiunge quando un perdente si rende conto di non poter modificare nel breve e medio periodo la situazione creatasi da uno scontro militare. Nel caso israelo-palestinese ciò non è mai successo. In più, sia gli israeliani sia i palestinesi godono di generosi finanziamenti internazionali – elargiti in maniera totalmente indipendente dal dal comportamento tenuto dai loro rispettivi riceventi. Si crea dunque il meccanismo perverso per cui Israele e ANP hanno un fortissimo incentivo a non collaborare, visto che i loro sponsor (USA e organizzazioni ebraiche per Israele e Paesi Arabi per l’ANP e Hamas) non li puniscono quando questi optano per la non collaborazione.

I palestinesi, inoltre, possono contare su un’arma fenomenale: il tempo. Per via dei loro tassi demografici, i palestinesi sanno che più passa il tempo, più la loro posizione rispetto agli israeliani si rafforza. Israele da parte sua può fare poco o nulla. In questa condizione, per i Palestinesi trattare con gli israeliani è poco conveniente. Qualunque accordo sottoscritto oggi, potrebbe diventare obsoleto nel giro di pochi anni. Si pensi ad alcuni centri abitati da poche migliaia di israeliani. Per via dell’elevato tasso di natalità tra i palestinesi, questi centri potrebbero venire presto abbandonati da Israele. Per quale ragione, dunque, i Palestinesi dovrebbero mettere al centro dei negoziati dei territori che essi potrebbero ottenere senza sforzi e in un arco temporale non eccessivamente lungo? Appunto, per nessuna ragione.

Infine, e qui arriviamo al punto cruciale, è necessario tenere in considerazione la drammatica assenza di unitarietà sia tra gli israeliani che tra i palestinesi. Per via della loro particolare natura, tanto lo Stato d’Israele quanto la popolazione palestinese sono spaccati da profonde divisioni interne. Queste divisioni tendono a ricompattarsi in momenti di crisi, ma anche ad esplodere subito dopo. Questa situazione porta dunque instabilità e in parte ad una certa incapacità/impossibilità da parte delle rispettive leadership di prendere decisioni impopolari ma necessarie.

I vari compromessi che le rispettive delegazioni cercano di raggiungere, infatti, non sono soggetti solamente all’accettazione della delegazione opposta, ma anche al meticoloso scrutinio delle fazioni estremiste, che hanno gioco facile a gridare al tradimento. Entrambe le leadership sono infatti profondamente vincolate dalle loro constituencies interne e quindi non possano spingersi troppo oltre. Per capirci meglio, quando si critica Arafat per la mancata firma dell’accordo di Camp David nel 2000, si interpreta erroneamente la situazione. La firma di Arafat non sarebbe infatti servita a nulla. I palestinesi non avrebbero mai accettato quell’accordo. Arafat, da attore razionale, evitò di porre il suo sigillo, giusto per evitare di finire anzitempo la sua carriera politica, se non addirittura la sua esistenza.

Conclusioni

Palestinesi e israeliani sono giunti al vertice di Annapolis senza che le loro posizioni sul campo siano state modificate significativamente. I due popoli sono logorati da anni di conflitto, ma nessuno dei due lo è a tal punto da accettare i termini dell’altro. Dall’altra parte, nessuno (Stati Uniti in testa) è disposto ad accettare una nuova guerra – l’unico modo per chiarire i rapporti di forza e dunque arrivare ad una vera pace.

La situazione è però ancora più instabile e incerta. Negli anni, sia gli israeliani che i palestinesi hanno potuto contare su lauti contributi internazionali che li hanno incentivati alla defezione piuttosto che alla cooperazione. Anziché essere tagliati o modulati in corrispondenza dell’intransigenza israeliana o palestinese, questi finanziamenti non hanno mai smesso di arrivare – ciò ha contributo all’irresponsabilità politica e al mancato raggiungimento di qualsiasi intendimento.

I palestinesi, dalla loro parte, hanno sempre avuto un potentissimo incentivo a non cooperare. La loro crescita demografica li mette, di fatto, in una condizione di forza relativa crescente negli anni a venire. Inoltre, il loro particolare rapporto con gli Stati Arabi, per i quali il problema palestinese esiste solo in funzione anti-israeliana, non ha fatto che aggravare la situazione. Ciò spiega dall’altra parte anche la riluttanza israeliana ad un qualsiasi accordo – anche se non si capisce bene dove una tale strategia possa portare.

Infine, palestinesi e israeliani sono fortemente frazionati al loro interno. Le leadership che vanno a contrattare sono immediatamente soggette alla competizione di altri gruppi interni che non solo sfidano la loro leadership ma che compromettono anche i loro sforzi.

Fino a quando questi condizioni si manterranno, una pace sarà impossibile, e ogni tentativo finirà in fallimento. Annapolis non farà eccezione.

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A proposito, consigliamo la lettura dell’ottimo Evans, Jacobson and Putnam (1993). In particolare il capitolo di Putnam,

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