di Mario Seminerio – © Libero Mercato
La fine degli scioperi dei ferrovieri francesi (sia quelli della SNCF che quelli della RATP, la Régie locale della regione parigina), ha scatenato una corsa all’interpretazione ed all’analisi su chi abbia “vinto” il braccio di ferro che per una decina di interminabili giorni ha visto fronteggiarsi gli cheminots da un lato, ed il governo Sarkozy-Fillon dall’altro. Passeggiando per la blogosfera abbiamo notato alcuni spericolati paragoni tra l’azione di Sarkozy ed il braccio di ferro che oppose Margaret Thatcher ai minatori inglesi, alla fine degli anni Settanta, o ancora il licenziamento in tronco dei controllori di volo in sciopero, adottato da Ronald Reagan nel 1981. Ci colpisce, soprattutto, l’interesse quasi ossessivo che ogni iniziativa di Sarkozy suscita presso politici e giornalisti italiani, un interesse che non ha pari in nessun altro paese europeo.
Per molti aspetti, il continuo richiamo all’attività del presidente francese fa il paio con le proposte di riforma della nostra legge elettorale. Sembra che nel nostro paese debba sempre esistere una sorta di ipse dixit, di modello di riferimento estero ed esterno: propensione che viene da molto lontano, e di cui è agevole rinvenire tracce persino nella Divina Commedia. Fuori di ironia, a noi piacerebbe avere una legge elettorale “italiana”, cioè centrata sulle specifiche esigenze di governabilità del nostro paese, e non “tedesca” o “spagnola”, e lo diciamo non per velleità autarchiche quanto per contribuire a combattere il provincialismo che da sempre caratterizza il dibattito pubblico di questo paese.
Tornando a Sarkozy, e tentando di fare il nostro lavoro (che resta l’analisi economica), possiamo confermare che il braccio di ferro coi ferrovieri è stato tale? E possiamo affermare che il presidente francese abbia posto fine ai privilegi dei “regimi speciali” di pensionamento? Ad una prima analisi, non sembrerebbe. Lo sciopero dei ferrovieri è stato sospeso, più che cancellato, e subordinato all’esito delle discussioni che si svolgeranno durante i tavoli tripartiti tra sindacati, governo e datori di lavoro (SNCF e RATP) che iniziano questa settimana. Il governo ha proposto forme di robusta incentivazione monetaria come contropartita all’eliminazione dei regimi speciali che oggi consentono ai ferrovieri di andare in pensione a 55 anni di età (50 per i macchinisti).
Scorrendo l’agenda dei tavoli negoziali tripartiti (che di fatto sono bipartiti, visto che appare piuttosto improbabile pensare a dirigenti della SNCF che rifiutano le proposte governative), ritroviamo alcune ipotesi di lavoro familiari a noi italiani. Ad esempio, con decorrenza luglio 2008 è previsto l’aumento dei salari dello 0,5 per cento a semestre (per un massimo di sei semestri) per i ferrovieri che resteranno al lavoro dopo aver compiuto l’età-soglia di cui sopra. Ancora: oggi la pensione dei ferrovieri è calcolata sull’88 per cento della retribuzione, ed il governo sta pensando di includere nella retribuzione pensionabile anche parte di quel 12 per cento oggi escluso, rappresentato soprattutto da premi, gratifiche ed indennità. Verrebbe poi prevista una sorta di “banca del tempo”: sei giorni “risparmiati” per anno lavorativo darebbero origine, a fine carriera, ad un bonus di un anno di sconto sull’età di pensionamento. Altra tavola rotonda negoziale sarà poi dedicata alla contribuzione figurativa per i periodi di apprendistato in azienda, part-time, congedo parentale e per le carriere discontinue. Prevista anche la considerazione dei lavori usuranti che i francesi chiamano, in modo altrettanto immaginifico, “penibilité”. Riguardo questo capitolo, a fine carriera i ferrovieri potrebbero scegliere di essere destinati a mansioni meno pesanti o di poter accedere al part-time a condizioni vantaggiose.Secondo alcune stime, queste misure di “accompagnamento” alla pensione e di “eliminazione” dei privilegi dei regimi speciali potrebbero avere un costo annuo di 100 milioni di euro, che sarebbero evidentemente posti a carico della collettività, sia attraverso ritocchi alle tariffe ferroviarie che sotto forma di maggiore spesa pubblica per il ripiano del deficit gestionale di SNCF e RATP.
Come si nota, nulla di realmente rivoluzionario: Sarkozy sta semplicemente offrendo ai ferrovieri la monetizzazione dei privilegi dei regimi speciali. Poiché, per deformazione professionale, riteniamo che il pragmatismo debba esprimersi attraverso il calcolo di costi e benefici di date misure di policy, attendiamo di capire a quanto ammonteranno i risparmi previdenziali generati da tale riordino dei regimi speciali, che potrebbero rappresentare l’investimento iniziale necessario a conseguire l’unificazione dei regimi pensionistici. Quello che tuttavia appare del tutto evidente è che non c’è modo di parlare di “resa dei conti”, né di compiere parallelismi con Reagan e Thatcher: al netto della drammatizzazione mediatica di cui è maestro, Sarkozy si muove nel solco della tradizione ultra-corporativista europea. I suoi estimatori italiani farebbero quindi bene a leggere in controluce, prima di lanciarsi in spericolati quanto provinciali peana.
Nel frattempo, le brutte notizie per l’intorpidita economia francese si susseguono: consumi e produzione industriale sono in frenata quanto e più che nel resto d’Europa; un crescente numero di consumatori lamenta perdita di potere d’acquisto; il calo dei livelli di attività rende meno probabile il ricorso agli straordinari, mettendo a nudo la fallacia della strategia di aumento dell’offerta di lavoro ottenuto con la detassazione del lavoro straordinario. Giorni addietro la Commissione Attali “per la liberazione della crescita”, a cui partecipano gli italiani Mario Monti e Franco Bassanini si è sentita dire, nel corso di un’audizione del presidente della Banca Centrale Europea, Trichet, e del segretario generale dell’Ocse, Angel Gurria, che tra il 1999 ed il 2006 i costi nominali unitari di produzione francesi sono cresciuti del 14 per cento, contro il 2,1 per cento della Germania: ricetta sicura per perdita di competitività e danni permanenti al mercato del lavoro.
Alla luce di questo dato si può già concludere che, mentre molti italiani si affannano a scimmiottare Sarkozy, in realtà è il presidente francese ad ispirarsi al Belpaese, chiedendo a gran voce svalutazioni del cambio dell’euro per compensare aumenti dei costi di produzione e oneri impropri di sistema-paese causati da ipercorporativizzazione.
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