Imposta sui consumi in quattro mosse

di Mario Seminerio – © Libero Mercato

Per la maggior parte del Ventesimo secolo, la principale imposta federale sui privati negli Stati Uniti è stata quella sul reddito, sia da lavoro (salari e stipendi) che da capitale (interessi, dividendi e capital gains). Ma un numero crescente di economisti e politici sono giunti alla conclusione che gli Stati Uniti dovrebbero sostituire (in tutto o in parte) l’imposta sul reddito con una imposta sui consumi.

Malgrado il dibattito sia stato finora in prevalenza basato sull’opportunità, per gli Stati Uniti, di introdurre un’imposta sul valore aggiunto del tipo di quelle in vigore in Europa, essa non rappresenta il tipo di imposizione a cui pensano i sostenitori della tassa sui consumi, che ipotizzano invece una imposta sui consumi (significativamente nota anche come imposta sul reddito consumato) applicata su ciò che viene speso, anziché su ciò che viene guadagnato. Si può quindi pensare alla consumption tax come ad un’imposta sul reddito che consente deduzioni illimitate per i risparmi e che quindi tassa tutti i prelievi dal risparmio, proprio come avviene con i conti previdenziali individuali (Individual Retirement Accounts, IRA) o con i piani di risparmio 401(k).

Secondo i suoi sostenitori, l’imposta sui consumi consente di raggiungere ciò che gli economisti fiscali definiscono “neutralità temporale”. Un’imposta è neutrale se la sua introduzione non modifica le abitudini di spesa ed i modelli di comportamento degli agenti economici. Ad esempio, l’imposta sul reddito ed i contributi sociali (soprattutto in Europa ed in Italia) creano un “cuneo fiscale” tra il valore del lavoro di una persona (ciò che gli imprenditori sono disposti a pagare) e ciò che la persona effettivamente riceve (dopo le imposte). Come risultato di ciò, le persone lavorano meno e scelgono più tempo libero di quanto farebbero in un ipotetico mondo senza tassazione. Per i sostenitori della consumption tax, l’imposta sul reddito crea un’enorme danno di lungo periodo all’economia, perché penalizza la parsimonia, tassando parte del ritorno sui risparmi. Questo cuneo fiscale si traduce in minor risparmio, minor investimento, minore innovazione e standard di vita inferiori a quelli che sarebbero ottenibili in assenza di tassazione del risparmio. In altri termini, l’imposta sul reddito crea una distorsione temporale a favore del consumo corrente e a danno di quello futuro, cioè del risparmio. Altrettanto importante, il risultato è un livello di risparmio inferiore a quello che la società sceglierebbe liberamente, in assenza di tassazione. Per contro, un’imposta sui consumi correttamente costruita può essere neutrale tra consumi e risparmi, perché le imposte graverebbero sul reddito consumato e non su quello risparmiato. Pertanto, il cuneo fiscale sul risparmio è zero, e lo stock del medesimo è molto più vicino alla quantità determinata dalla sommatoria delle scelte individuali dei cittadini, e non di politici, social planner o economisti.

Per capire il funzionamento dell’imposta sui consumi, immaginate che una persona abbia un reddito lordo di 10.000 dollari. Con un’imposta sul reddito con aliquota unica al 25 per cento (per semplificare), il suo reddito dopo le imposte sarebbe di 7500 dollari, destinabile a consumi o risparmio. Ipotizzate che non vi sia inflazione, e che il tasso d’interesse annuo sulle obbligazioni sia del 5 per cento. Se il nostro cittadino decide di risparmiare l’intera cifra di 7500 dollari, investendola in obbligazioni, dopo un anno guadagnerà 375 dollari (il 5 per cento di 7500 dollari) su cui pagherà 93,75 dollari di imposte sul reddito (il 25 per cento), e si ritroverà con 281,25 dollari di reddito da interessi (frutto del risparmio), che sommato al reddito dopo le imposte fa un totale di 7781,25 dollari potenzialmente consumabili in beni e servizi. Notate che il mercato ha pagato il 5 per cento per indurre a differire il consumo (cioè per acquistare le obbligazioni), ma il nostro risparmiatore se ne è ritrovato in tasca, dopo le imposte, solo il 3,75 per cento. Considerate ora cosa accadrebbe con una consumption tax: il nostro risparmatore-consumatore dispone di 10.000 dollari di reddito. Se lo consuma tutto, paga gli stessi 2500 dollari di tasse, e spende gli stessi 7500 dollari del caso precedente. Se risparmia tutto il suo reddito, potrà investire tutti i 10.000 dollari, perché otterrà una deduzione d’imponibile su quello che risparmia. Quindi, investirà tutti i 10.000 dollari in obbligazioni al 5 per cento, e dopo un anno si ritroverà con 10.500 dollari. Se li spenderà tutti, dovrà pagare il 25 per cento di imposta sui consumi, pari a 2625 dollari, ed avrà quindi un potere di acquisto e consumo pari alla differenza, cioè 7875 dollari. Cioè esattamente il 5 per cento in più di quello che avrebbe avuto un anno prima (7500 dollari). Non c’è quindi nessuna distorsione tra consumo corrente e futuro.

La principale opposizione all’imposta sul consumo argomenta che essa dovrebbe avere un’aliquota considerevolmente superiore a quella dell’imposta sul reddito, per produrre lo stesso gettito, poiché il reddito risparmiato rappresenta un abbattimento della base imponibile. Per questa ragione l’imposta sul consumo sarebbe meno neutrale di un’imposta sul reddito nella scelta tra lavoro e tempo libero. Ma occorrerebbe verificare l’evidenza empirica per avere risposte conclusive.

Una ulteriore obiezione ritiene che l’imposta sul consumo sarebbe regressiva, penalizzerebbe cioè gli strati sociali più poveri, che destinano gran parte del proprio reddito ai consumi, spesso di pura sussistenza, ed avvantaggerebbe i soggetti più abbienti, quelli per cui la quota di reddito da capitale (cioè da risparmio) sul totale è molto elevata, e che sarebbe quindi esente da tassazione. Obiezione fondata, ma che potrebbe essere superata introducendo una franchigia fiscale sulla tassazione dei consumi, del tutto equivalente alla no-tax area attualmente utilizzata nell’imposta sul reddito.

In Europa, dove l’imposizione sul reddito e quella sui consumi coesistono, stiamo assistendo al tentativo dei governi di ridurre il costo del lavoro, spostandone il relativo onere fiscale sulle imposte indirette (nel caso tedesco o nella attualmente congelata ipotesi francese dell’”Iva sociale”) oppure (autolesionisticamente, come nel programma dell’Unione in Italia) sul risparmio al quale, per titillare l’invidia sociale dell’elettorato, viene dato il suggestivo nome di “rendite finanziarie”. Nel primo caso il rischio assai concreto è quello di deprimere ulteriormente i consumi privati, nel tentativo di modificare al margine un modello di fiscalità ormai fallito, figlio di un welfare onnivoro, classista (perché beneficia maggiormente i non bisognosi) e prigioniero degli special interests.

In sintesi, quindi, la sequenza operativa di una ipotetica riforma basata sulla consumption tax sarebbe la seguente:

1. Eliminazione dell’imposta sul reddito e dell’imposta sul valore aggiunto;
2. Conferimento di ogni forma di reddito percepito dal contribuente ad un conto fiscale individuale;
3. A fine esercizio d’imposta, si calcola la differenza tra: saldo iniziale più versamenti meno saldo finale;
4. Sulla differenza così ottenuta, che rappresenta il consumo dell’anno, viene applicata la tassazione, con un’unica aliquota ed una no-tax area di importo pari al consumo di sussistenza stimato.


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