Quei “sì, però…” che non ci piacciono

di Antonio Mele

In un Paese che ha vissuto per decenni sotto le due Chiese, quella cattolica e quella comunista, è difficile far passare il concetto che il mercato e la concorrenza siano portatori di benessere. E per quelli che sembrano averlo accettato come meccanismo benefico, dopo tanto tempo passato invece a combatterlo, si tratta in realtà di un “sì, però…” che porta con sé tante eccezioni e caveat. Ne ho scelto due, e provo a spiegare in base alla ricerca più recente perché mi sembrano poco fondate.

Un noto caveat è che il mercato non genera uguali opportunità per persone di differente reddito: la retorica vuole che il ricco frequenti scuole prestigiose, si laurei e lavori magari nell’azienda di famiglia, mentre il povero frequenta scuole mediocri e va a lavorare in fabbrica molto presto. Quindi il governo deve intervenire per ridistribuire le risorse a favore dei poveri e favorire le stesse opportunità dei ricchi.

Un altro caveat discende in parte dal primo, ed è che il governo, per poter ridistribuire il reddito, deve avere accesso a informazioni dettagliate su redditi e patrimoni dei cittadini, in modo da non lasciarsi sfuggire il ricco evasore.

Vediamo perché questi due argomenti non mi convincono.

Mobili e diseguali

L’uomo della strada probabilmente affermerebbe che una società ideale debba esibire una buona dose di mobilità sociale: il povero deve poter diventare ricco, se lavora duramente. Altrettanto probabilmente affermerebbe che la società dovrebbe garantire uguali opportunità al figlio del ricco e al figlio del povero: il povero deve avere le stesse prospettive economiche del ricco.

Ma è veramente così? Un lavoro recente di Christopher Phelan (qui una versione gratuita) mostra che il miglior sistema sociale (quello che garantisce il maggior benessere sociale) è caratterizzato sì da mobilità sociale, ma anche da opportunità disuguali. Phelan parte dal presupposto che ognuno ama i proprio figli e quindi è altruista nei loro confronti. Inoltre, è necessario fornire degli incentivi alle persone affinché si impegnino ad ottenere di più (ovvero, la società deve premiare chi si impegna e punire chi non lo fa). Dopodiché, si pone la seguente domanda. Mettiamoci in un contesto Rawlsiano di velo d’ignoranza: in quale tipo di società vorremmo vivere senza sapere in quale generazione nasceremo, e se nasceremo in una famiglia ricca o povera?

Il lavoro di Phelan mostra alcuni risultati molto interessanti. Anzitutto, la società ideale non tende alla polarizzazione estrema del reddito: la disuguaglianza della distribuzione del reddito tende ad aumentare, ma raggiunge un livello finito di disuguaglianza.

Secondo, la società ideale ha una buona dose di mobilità sociale: un individuo nato povero ha sempre una chance di diventare ricco lavorando duramente e con un pizzico di fortuna. Questo in effetti è in linea con il pensiero dell’uomo della strada.

Terzo, la società ideale offre opportunità disuguali al figlio del ricco e al figlio del povero: chi nasce in una famiglia povera ha meno prospettive economiche di chi nasce in una famiglia ricca. Quale è il motivo? In tal modo, un genitore che non si impegna tanto sa che il suo comportamento ricadrà sulle opportunità del figlio; essendo altruista verso i suoi figli, avrà maggiori incentivi a impegnarsi di più. In questo caso, il fatto che le colpe dei padri ricadano sui figli è una forma di incentivare i padri a comportarsi bene.

Lezione da trarre: il fatto che il mercato offra opportunità economiche diverse a ricchi e poveri è uno dei suoi punti di forza come meccanismo di produzione di ricchezza. Non si vede quindi perché debba essere distorto così pesantemente dall’intervento governativo.

Governi troppo informati

Ci si lamenta spesso del costume di molti imprenditori italiani di trasferire ingenti somme all’estero, per sottrarle al fisco. In generale tale comportamento e’ ritenuto dannoso e nocivo. Alberto Bisin e Adriano Rampini identificano pero’ anche un effetto positivo di liberi e anonimi movimenti di capitale. Immaginiamo di essere in una situazione in cui il governo sia benevolente, ma non in grado di mantenere le proprie promesse (in gergo economico, non abbia full commitment) e che debba raccogliere le tasse per ridistribuire il reddito. In tal caso, il governo usa tutta l’informazione in suo possesso sulle proprietà presenti e passate del cittadino per decidere quanto tassarlo. Immaginiamo che il governo prometta che le tasse sui redditi da capitale saranno molto basse domani, e che sia in grado di vedere esattamente i nostri guadagni sul mercato finanziario (in realtà Bisin e Rampini immaginano che il governo non possa vedere quanto ogni cittadino ha guadagnato, ma che possa strutturare il sistema fiscale in modo tale che il cittadino riveli i suoi guadagni; il risultato cambia di poco). Noi oggi, ragionevolmente, potremmo investire una somma sperando di ottenerne domani un rendimento elevato, vista la tassazione ridotta. Domani questa somma ci darà un maggiore o minore reddito, a seconda di quanto siamo stati bravi e fortunati. Ma domani, siccome il governo non è capace di mantenere le promesse, appena visto quanto abbiamo guadagnato emetterà un decreto per imporre una tassa molto più elevata di quella promessa ieri. I cittadini ovviamente non sono stupidi: capiranno dall’inizio che questo sarà il risultato finale, e quindi non investiranno i loro soldi dal principio. Cosa implica questo? Un mondo nel quale nessuno investe perché ha paura che domani il guadagno derivante dal suo investimento sarà espropriato dal governo.
In tal caso, avere accesso ad un mercato anonimo (ovvero, un mercato finanziario che il governo non può monitorare) permette di ridurre le informazioni del governo sulle proprietà dei cittadini. Questo riduce la possibilità del governo di tassare pesantemente il cittadino dopo aver visto se è ricco o povero. In pratica, il mercato anonimo serve da vincolo all’eccesso di tassazione del governo, rendendo così profittevole investire in attività produttive e poi nascondere i frutti di tale investimento nel mercato anonimo.
Quindi, ciò che a prima vista può sembrare un comportamento molto negativo (e in parte lo è, si pensi all’attività di riciclaggio che passa attraverso i conti svizzeri, chiaro esempio di mercato anonimo), in realtà si rivela anche un valido vincolo contro un governo che non riesce a mantenere le sue promesse, pure nel caso in cui tale governo sia armato delle migliori intenzioni.

Un messaggio più generale che possiamo trarre dal lavoro di Bisin e Rampini è che governi troppo informati a volte fanno danni. Questo sembra ben chiaro al pubblico quando si parla di privacy e intercettazioni telefoniche (si pensi per esempio al caso delle mail “spiate” dall’amministrazione Bush o all’abuso di intercettazioni della magistratura italiana), ma non lo è altrettanto quando parliamo di attività finanziarie (il progetto di Visco di un “Grande Fratello” bancario che osserva i nostri conti correnti ne è un prototipo).

I “sì, però…” dovrebbero essere altri

Quando si parla di mercato e concorrenza, nel nostro Paese, c’è sempre un forte bias nel dare maggior peso ai possibili danni rispetto ai benefici. In base a tali danni possibili (e spesso immaginari) si tende a indicare il governo come deus ex machina capace di risolvere la situazione in modo favorevole ai cittadini, specie a quelli più deboli. Nel mio piccolo ho cercato di fornire un argomento sul perché questi danni spesso sono in realtà benefici, e sul perché il governo è un improbabile candidato per risolvere questi danni anche si ve ne fossero, e anzi vanno individuati meccanismi per limitare la sua azione che, seppur animata delle migliori intenzioni (cosa di solito non vera), crea essa sì, danni gravi alla società. Mi piacerebbe in futuro sentire anche dei “sì, però…” sull’intervento pubblico, soprattutto in un Paese come l’Italia in cui il governo di benevolente non ha mai avuto nulla.

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