di Piercamillo Falasca
Si ringrazia Pietro Paganini di Competere – spinning Innovation
La bancarotta della Repubblica Argentina del dicembre 2001 ha rappresentato uno dei più straordinari eventi finanziari degli ultimi decenni. A distanza di cinque anni e mezzo, le conseguenze di quel default sono ancora evidenti e rischiano di essere più gravi di quanto si pensasse inizialmente.
Nel dicembre del 2004, il governo di Buenos Aires ha ristrutturato il suo debito di 80 miliardi di dollari nei confronti dei titolari dei bond, proponendo loro una pesante offerta “prendere o lasciare”: nuovi titoli del valore di circa 27 centesimi per ogni dollaro detenuto o la rinuncia a qualsiasi pretesa.
L’offerta di ristrutturazione è stata accettata da circa il 75% dei creditori, i quali – nello scambio – hanno subito una perdita complessiva di circa 67 miliardi di dollari. I cosiddetti holdout bondholders, ossia coloro che hanno invece rifiutato l’accordo considerando troppo penalizzante, hanno (per ora) perso circa 20 miliardi, ai quali andrebbero aggiunti i circa 10 miliardi di interessi nel frattempo maturati.
In tutto, i risparmiatori hanno lasciato sul campo poco meno di 100 miliardi di dollari (di questi, circa 12 riguardano risparmiatori italiani).
Il tasso di adesione allo swap sul debito è stato relativamente basso, se paragonato ad altri casi recenti (Ecuador 2000: 97%; Pakistan 1999: 95%; Russia 1998-2000: 98%; Ucraina 1998-2000: 95%; Uruguay 2003: 93%).
Se si considera inoltre che la quasi totalità dei creditori di nazionalità argentini – detentori del 47% del debito – ha aderito all’offerta (molti di questi creditori erano soggetti a controllo pubblico come banche e fondi pensione), si evince che la risposta internazionale allo swap è stata ancora più fredda: ha aderito appena il 50%.
E’ curioso notare che l’esito del piano non soddisferebbe nemmeno i criteri che il governo argentino ha posto per le emissioni dei bond post-default: per i nuovi titoli, Buenos Aires ha previsto una clausola obbligatoria (collective action clause), secondo la quale – in caso di futuro default e di eventuale ristrutturazione del debito – se il 75% dei creditori internazionali dovesse accettare il piano di ristrutturazione, i restanti creditori non potranno richiedere il pagamento del debito a condizioni diverse.
Oltre che i costi diretti sui creditori, le scelte del governo argentino hanno avuto ricadute negative anche sui contribuenti (i mancati guadagni dei titolari dei bond hanno causato minori introiti per l’erario) e sui risparmiatori in genere (perché hanno colpito il valore delle compagnie internazionali con investimenti rilevanti in Argentina). Questi “costi indiretti” ammontano a più di 63 miliardi di dollari. Per la sola Italia, i costi indiretti sono circa 6 miliardi di dollari, di cui 4 a danno dell’erario, ossia dei contribuenti.
Il governo argentino di Nestor Kirchner avrebbe dovuto offrire di più? Sì.
Non solo non lo ha fatto, ma ha gestito il rientro dal default in barba a tutti gli standard e i principi del mercato finanziario globale. Vediamo perché.
Uno, le ristrutturazioni del debito (compresi gli esempi prima indicati) prevedono solitamente la restituzione di una porzione del capitale compresa tra il 40% ed il 60%, non il 27% stabilito dall’Argentina.
Due, i dati macroeconomici confermano che l’Argentina ha risorse sufficienti per ripagare il debito. Il Pil sperimenta tassi di crescita “cinesi” (7,6% nel 2005, 8,5% la stima per il 2006). In virtù dei buoni risultati dell’export, inoltre, le riserve ufficiali dell’Argentina crescono ad un ritmo di 51 milioni di dollari al giorno. Erano circa 20 miliardi nel dicembre 2004 (data dell’offerta di scambio), ammontano oggi a più di 40 miliardi, nonostante il pagamento nel 2005 del debito di 10 miliardi in favore del FMI.
Tre, Buenos Aires ha agito in cattiva fede, sfruttando un vuoto di leadership nella comunità internazionale. Il governo di Kirchner ha, infatti, scelto una politica “selettiva” di rientro dal debito:
• ha ripagato il debito di circa 10 miliardi con il FMI, spuntandone così le armi di pressione; ha poi intrapreso una campagna di forte polemica nei confronti del Fondo stesso, accusandolo di aver causato la crisi del 2001 e rispondendo con indignazione ad ogni intervento dei vertici dell’istituzione internazionale sul tema della ristrutturazione del debito verso i creditori privati;
• ha scelto di non intraprendere sino alle elezioni presidenziali di ottobre 2007 alcuna trattativa con il Club di Parigi (paesi creditori), con l’importante (ideologicamente) eccezione della Spagna di Zapatero, con la quale l’Argentina sta negoziando il pagamento di circa 1 miliardo di dollari a condizioni molto favorevoli;
• appena prima dell’offerta di ristrutturazione, consapevole che l’attenzione dei creditori e dei tribunali di tutto il mondo si sarebbe concentrata sulle riserve ufficiali, ha spostato le sue riserve presso la Bank of International Settlements a Basilea, perché lo statuto di quell’istituto prevede la protezione completa degli asset e dei depositi da ogni forma di esproprio, confisca, requisizione. Nel farlo, l’Argentina sacrifica circa 1 miliardo di dollari all’anno di interessi (gli interessi della BIS sono mediamente più bassi di quelli cui l’Argentina avrebbe beneficiato collocando le sue riserve altrove). E’ una scelta che ha razionalità economica solo se concepita al preciso scopo di indurre i creditori ad accettare il piano di ristrutturazione ed a mettere al riparo le riserve da qualsiasi azione giudiziaria internazionale.
Di fronte ad una best practice come quella argentina, perché mai un paese in default dovrebbe ristrutturare il proprio debito a condizioni più favorevoli ai creditori?
La scelta del Fondo di accettare il pagamento del debito senza condizionarlo ad una migliore ristrutturazione del debito verso privati è stata una prova di lassismo dei governi occidentali. Nello sforzo miope di dissuadere il presidente Kirchner dal consolidare i rapporti con il regime anti-americano del Venezuela di Chavez, l’amministrazione Usa ha spesso appoggiato il governo argentino nel corso di giudizi sollevati da creditori privati presso tribunali americani ed ha caldeggiato una ristrutturazione rapida (qualsiasi purché si facesse) del debito.
Questa posizione non ha dissuaso Kirchner dall’allearsi con Chavez: anzi, il Venezuela è divenuto il maggiore finanziatore dell’Argentina, ha acquistato 3,6 miliardi di bond negli ultimi 12 mesi, ha predisposto l’emissione di bond congiunti.
In questo contesto, le responsabilità del governo italiano sono oltre modo gravi. Se nel caso degli Stati Uniti si può parlare di “scelte sbagliate” (tentativo di arginare la deriva chaveziana sostenendo le scelte di Kirchner), nel caso dell’Italia siamo di fronte ad una “non scelta”, ossia all’astensione dalla difesa degli investimenti dei suoi cittadini. La tutela della proprietà finanziaria dei cittadini italiani dovrebbe essere una priorità di politica estera del governo, importanti almeno quanto gli obblighi di “politica interna”, dalla promozione della trasparenza del mercato (si pensi alla responsabilità delle banche italiane nella vicenda) alla protezione dei diritti dei piccoli azionisti nelle scelte aziendali (pensiamo ai passaggi proprietari di Telecom di cui non beneficiano minimamente i risparmiatori). Sono tutte facce della stessa medaglia, che testimoniano la scarsa attenzione riservata nel nostro paese alla proprietà.
La vicenda dei bond argentini non è un problema solo italiano. Difficilmente i creditori internazionali vedranno soddisfatte le proprie pretese grazie alle tante cause intraprese contro il governo argentino, sia perché non vi è alcuna via legale che possa convincere un paese sovrano a riconsiderare le proprie decisioni, sia per la debolezza intrinseca del diritto internazionale. Si pensi, ad esempio, all’arbitrato internazionale intrapreso da alcune centinaia di migliaia di risparmiatori italiani sulla base della “Icsid Convention”: sebbene gli stati firmatari della Convenzione siano tenuti a riconoscere ed osservare le sentenze, l’art. 55 della stessa Convenzione concede l’immunità dal pignoramento ai beni pubblici degli Stati sovrani presso le altre nazioni aderenti, rendendo in concreto inefficace l’azione legale intrapresa nei confronti della Repubblica Argentina.
La scarsa efficacia del diritto internazionale è acuita dalle dinamiche transfrontaliere dei mercati finanziari cui fanno da contraltare regole nazionali ed interessi statali. E’ la distorsione del mercato finanziario globale provocata dalla presenza dei soggetti pubblici (il governo argentino, nel nostro caso), monopolisti delle regole.
Che fare? Considerando l’uso della forza una via non perseguibile (o no?), si potrebbe tentare con le ritorsioni, agendo magari sulle leve più sensibili per il governo argentino, le barriere commerciali. Ma sarebbe una giustificazione indesiderata del protezionismo, le cui conseguenze – d’altronde – si scaricano sui produttori e sui consumatori privati, non certo sugli stati.
Cercare forme di persuasione è l’unica strada davvero percorribile. Vuol dire – come sostiene Nancy Soderberg – condizionare i futuri prestiti del FMI e della Banca Mondiale al rispetto delle regole internazionali, magari imponendo che le istituzioni internazionali ed i governi creditori accettino di negoziare il proprio credito a condizione che non siano penalizzati i creditori privati; infine, permettere ai titolari dei bond di attaccare gli asset del governo argentino in Europa ed in America (vedi fondi presso la BIS o presso altre istituzioni finanziarie).
Se i governi occidentali continuano invece a permettere all’Argentina di perseguire la sua politica, si potrebbe consolidare un nuovo e pericoloso standard di “default strategico”, imitabile da altri paesi emergenti.
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