di Mario Seminerio
Dice un vecchio adagio che un’immagine vale più di mille parole. Prima di sottoporvi l’immagine in questione, ci corre l’obbligo di scrivere alcune parole (assai meno di mille, fortunatamente) a titolo di legenda. Nell’ottobre 2001, a poche settimane dall’attacco al cuore dell’Occidente, l’aviazione civile di tutto il pianeta appariva in ginocchio. Le quotazioni azionarie di tutti i vettori erano intrappolate in una spirale ribassista senza fine. Ma quella spirale, inopinatamente, si interruppe. Iniziò una lenta ma sicura risalita, che acquisì velocità (assieme ai mercati azionari mondiali), con l’inizio delle operazioni militari in Iraq, nel marzo 2003 e, successivamente, con la forte crescita dell’economia globale. Di tutto rilievo è anche il fatto che il settore delle linee aeree, nel corso di questi anni, è riuscito a recuperare profittabilità pur in presenza di un altro forte shock, quello dell’impennata dei prezzi del greggio, che dal gennaio 2002 ad oggi ha portato le quotazioni del barile da circa 20 dollari agli attuali 65, passando per il picco di 78 dollari della fase immediatamente successiva all’uragano Katrina. Tutto ciò premesso, osservate ora il grafico qui sotto (cliccare sull’immagine per ingrandirla):
Si tratta del ritorno complessivo, a tutto marzo di quest’anno, di un investimento di cento euro, compiuto a fine ottobre 2001*. La linea verde indica l’indice Bloomberg delle principali compagnie aeree europee. E’ un indice ponderato per la capitalizzazione, composto da dieci vettori: Air France, che oggi pesa il 18.3 per cento dell’indice; Lufthansa, con eguale peso; Ryanair, al 17.7 per cento. British Airways (al 15.9 per cento), e poi easyJet (8.1), Iberia (6.8), SAS (5 per cento), Aeroflot (4.45), Aer Lingus (3 per cento) e Alitalia, che oggi pesa solo per il 2.36 per cento dell’indice.
Dal grafico si evince che 100 euro investiti nell’indice al 31 ottobre 2001 sono diventati, il 31 marzo di quest’anno, 323.84, incluso il reinvestimento dei dividendi. Gli stessi 100 euro, investiti in azioni Lufthansa o Air France sono diventati, rispettivamente, 178.40 e 266.80. Gli stessi cento euro, investiti nella nostra compagnia di bandiera, si sono annichiliti a 16.95 euro. Non male, vero?
Possiamo certamente discutere delle responsabilità di questo vero e proprio meltdown aziendale: errori strategici del management, eccessive rigidità sindacali, interferenze politiche, un mix di tutti questi motivi. Ma i numeri restano impietosi, e rappresentano lo spartiacque di mercato tra chi ha saputo reagire ad una crisi strutturale, trasformandola in opportunità di sviluppo, e chi ha ostinatamente rifiutato di farlo, contando sul salvataggio di ultima istanza rappresentato dal denaro dei contribuenti. La domanda sorge spontanea: quante risorse della collettività sono state immolate sull’altare di Alitalia? Ne valeva la pena? Dal cocciuto mantenimento in vita della nostra “compagnia di bandiera” e del suo parassitario status quo è originato un aumento di benessere dei contribuenti italiani? E’ questa la declinazione all’italiana del concetto di “interesse generale”?
La prossima volta che ascolterete qualche satrapo politico o sindacale parlare di “difesa dell’italianità”, tornate con la mente a questo grafico e a questi dati. E incazzatevi, come è nel vostro ruolo e diritto di contribuenti consapevoli.
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* fonte: nostra elaborazione su dati Bloomberg Professional System
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