di Andrea Gilli

La felicitazione per la liberazione del giornalista Daniele Mastrogiacomo, sequestrato due settimane fa in Afghanistan dalle forze talebane, non deve oscurare alcuni forti perplessita’ che sorgono di fronte ai modi attraverso i quali la liberazione e’ stata effettuata.

Infatti, nonostante la presenza in loco tanto di servizi segreti, inviati diplomatici e di alcuni nuclei dei ROS, il Ministro degli Esteri ha preferito utilizzare il canale aperto dall’organizzazione Emergency di Gino Strada.

Ovviamente il fatto che un cittadino italiano e padre di famiglia sia stato portato sano e salvo a casa non puo’ che darci sollievo. Ma, come detto, i modi a cui si e’ ricorso per la sua liberazione pongono forti dubbi.

Lo Stato Moderno nasce – appunto in epoca moderna – con un fine dichiarato: quello di proteggere i suoi cittadini dalle minacce esterne. Con la nascita dei rapporti diplomatici permanenti tra Stati diversi, de facto, la difesa dei propri cittadini avviene anche all’esterno dei propri confini nazionali (cosa che in precedenza avveniva solo quando la posizione di forza lo permetteva). Cosi’, lo Stato, in altre parole, si preoccupa di difendere tutti i suoi cittadini, in qualunque situazione essi si trovino – in virtu’ del patto costitutivo che lega la nazione, e quindi i cittadini, appunto allo Stato, che della nazione e’ il supremo difensore.

Questa difesa, ovviamente, avviene attraverso gli organi dello Stato – non per via delegata, in quanto weberianamente lo Stato rimane il detentore del monopolio della forza e della legittimita’.

La liberazione di Daniele Mastrogiacomo e’ avvenuta invece attraverso un modo del tutto diverso: gli organi dello Stato sono stati infatti sostituiti da un’organizzazione di privati cittadini, una Onlus, guidata da Gino Strada, fondatore e animatore di Emergency. Per capire la gravita’ della situazione basta un semplice parallelismo: si pensi infatti a quale sicurezza darebbe uno Stato che, per liberare la vittima di un sequestro all’interno dei propri confini, anziche’ affidarsi alle forze di polizia si affidasse agli uffici di qualche pastore o di qualche medico, proibendo tassativamente alle forze dell’ordine qualsiasi tipo di interferenza.

La vicenda ha quindi almeno tre gravi implicazioni. In primo luogo c’e’ un problema di rappresentativita’. Il ruolo esercitato dal Dott. Strada nella vicenda pone un problema circa la funzione rappresentativa ricoperta in Afghanistan. D’ora in poi e’ infatti lecito chiedersi a chi sia necessario rivolgersi per risolvere ogni tipo di problema in terra afghana qualora gli interessi italiani siano in gioco. La logica e la consuetudine suggerirebbe l’ambasciata. Quanto successo recentemente suggerisce invece il Dott. Strada. E qui non siamo solo di fronte ad un problema di out-sourcing delle nostre funzioni diplomatiche. E’ un problema, serio, di rappresentativita’: perche’ se il nostro Paese non e’ in grado di farsi rappresentare dal proprio ambasciatore, allora e’ logico pensare che anche i nostri interlocutori afgani assumano che d’ora in poi sia il Dott. Gino Strada a rappresentare l’Italia.

Cio’ ha, di conseguenza, pensanti implicazioni in termini di credibilita’. Se uno Stato e’ costretto a ricorrere agli uffici di un’organizzazione di privati cittadini per liberare i propri connazionali, e’ naturale aspettarsi forti dubbi sulla credibilita’ che esso e’ in grado di reclamare di fronte non solo al Governo afghano ma anche alla comunita’ internazionale.

La logica prosecuzione di questo argomento riguarda le nostre capacita’ negoziali. Non bisogna eccedere in spiegazioni particolarmente complicate per far seguire a quanto detto che la nostra posizione di forza e’ costretta a ridursi sensibilmente, soprattutto – ma non solo – in Afghanistan. Se uno Stato non e’ in grado di difendere i suoi cittadini, allora non si capisce bene per quale ragione possa avocare a se’ il diritto di farne le veci. Senza parlare, poi, delle conseguenze dirette di tutto cio’ sulla nostra presenza militare nel Paese centrasiatico. Sembra infatti che i Talebani stiano per preparare una grande offensiva per cercare se non proprio di riprendere il controllo del Paese, quanto meno di decapitare gli sforzi Alleati a favore della ricostruzione. Rapendo un ostaggio italiano sono riusciti a piegare il nostro Paese tanto da abrogare, temporaneamente, il patto fondativo della nostra Repubblica, quello tra cittadini e Stato. Si pensi alle debolezza che il nostro Paese ha gia’ mostrato nelle settimane precedenti a proposito dell’Afghanistan e dunque si provi ad immaginare quale sia il ruolo dell’Italia nello scenario strategico dei talebani. La speranza e’ che costoro non abbiano mai letto Sun-Tzu: “quando loro attaccano, noi ci ritiriamo. Quando loro si ritraggono, noi attacchiamo”. A guardare la strategia sinora adottata dai talebani, si puo’ dire di tutto, tranne che siano degli improvvisati in campo strategico. E cio’, quindi, significa che, come le evoluzioni delle recenti ore dimostrano, la nostra presenza in loco e’ destinata a diventare sempre piu’ pericolosa.

ps: alcune parole sono dovute anche a proposito della Conferenza di Pace. Da quasi un anno il Governo in carica chiede una conferenza di pace sull’Afghanistan. Forse arrivera’, forse no. Il punto e’ un altro: nei giorni scorsi gli schieramenti dibattevano sull’opportunita’ di invitare o meno i talebani al tavolo. Nel solco neo-ideologico della politica italiana, gli schieramenti si sono divisi equamente tra coloro che erano a favore e coloro che erano contro una tale opzione. Tutta la vicenda stupisce per due motivi. In primo luogo, la conferenza di pace era vista dai suoi sostenitori come opposta, e non complementare, alla missione Nato. Come il Segretario dei DS Piero Fassino ha detto piu’ volte “bisogna andare oltre la missione militare”. Storicamente, come Clausewitz ha insegnato, i nemici si combattono per poi siglarvi insieme una pace. Nel nostro Paese, invece, una coalizione proponeva la battaglia ad libitum, mentre l’altra proponeva la pace senza la battaglia – quale delle due prospettive sia piu’ preoccupante e’ difficile da dirsi. Mentre intanto noi discutiamo se accettare o meno i talebani al tavolo delle trattative, e questo e’ il secondo punto, i talebani sembrano aver scelto chi debba rappresentare l’Italia: e questo non e’ il Governo italiano. “Quando loro attaccano, noi ci ritiriamo. Quando loro si ritraggono, noi attacchiamo.”

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8 risposte a “Chi rappresenta l’Italia”

  1. Avatar alessio
    alessio

    salve,
    potrebbe spiegarmi che differenza c’è fra la mediazione di Emergency per il rilascio di Mastrogiacomo in Afghanistan e quella della Croce Rossa per la liberazione delle due Simone in Iraq? saluti, Alessio

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  2. Avatar Andrea Gilli
    Andrea Gilli

    La differenza e’ minima ma sostanziale. In entrambi i casi le trattative sono state svolte (anche?) da organi non governativi. In entrambi i casi un’organizzazione non governativa è diventata de facto rappresentante pro tempore del Governo e dello Stato italiano. Solo in Afghanistan, però, è successo che gli organi dello Stato siano stati esplicitamente estromessi dalla trattativa su esplicita richiesta di un privato cittadino.

    Per esplicitare meglio il significato della vicenda, provi a pensare se un’organizzazione privata proclamasse di essere l’unica in grado di garantire la sicurezza dei cittadini italiani all’interno (o all’esterno – come in questo caso) dei nostri confini nazionali. A questo punto non si capisce più per quale ragione lo Stato Italiano dovrebbe ancora esistere.

    In Iraq, infatti, nessuno guardava alla Croce Rossa come al nuovo rappresentante istituzionale della Repubblica Italiana. Emergency in questo caso ha invece avocato a se’ competenze che si avvicinano troppo, a modo di vedere di chi scrive, a quelle dello Stato.

    Va da sè, che anche la liberazione degli ostaggi iracheni è avvenuta in maniera tutt’altro che soddisfacente (appunto coinvolgendo interlocutori che erano privi della componente principale di ogni trattativa: la forza) ledendo così in modo significato la credibilità del nostro Paese.

    In questo non c’è differenza con quanto avvenuto recentemente in Afghanistan.

    Distinti saluti, ag.

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  3. Avatar Mario Seminerio

    A ulteriore supporto della tesi che vede Emergency come outsourcing di organi legittimi dello stato italiano, che evidentemente ha abdicato dalle proprie funzioni, segnaliamo questo articolo di Le Figaro, in particolare il passaggio:

    Pourquoi avoir exclu des négociations les autorités militaires et les services secrets italiens présents à Kaboul ? Pourquoi avoir refusé aux Britanniques, responsables de la province du Helmand, d’intervenir militairement pour libérer le journaliste alors qu’ils avaient repéré la zone où il était détenu, au simple motif que « Gino Strada s’y opposait » ? Quel crédit conserver en Afghanistan, face aux alliés de l’Otan, alors qu’Angela Merkel réaffirmait lundi à Rome que « l’Allemagne ne cède pas au chantage des terroristes », en faisant allusion au sort de la mère allemande et de son fils enlevés en Irak ? Autant de questions pressantes auxquelles le gouvernement n’a pas voulu répondre.

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  4. Avatar Lorenzo Socci

    Caro Andrea, ho letto con grande interesse il tuo intervento che ha diversi spunti in comune con quanto ho scritto nel mio blog. Le tue lucide riflessioni non sono disquisizioni teoriche ma una triste realtà. Aggiungo che, a mio parere, rinunciare al proprio ruolo istituzionale significa in qualche modo disprezzare le istituzioni che si rappresentano. Il nostro ministro degli esteri, inoltre, stasera ha addirittura che non comprende le critiche americane sulle modalità con cui sono state portate avanti le trattative dal nostro governo perchè il nostro governo di trattative non ne ha fatte, affidandosi ad una struttura esterna (ottima la metafora dell’outsourcing) la quale (parole testuali) non ha fatto altro che presentare al governo afghano una lista con dei nomi di talebani da liberare e che se il governo afghano ha deciso di liberare quei soggetti significa che non li considerava poi così pericolosi. In altre parole tentando di giustificarsi espone la nostra diplomazia e il nostro Paese all’ilarità internazionale. Il silenzio critico di Parisi conferma che questa interpretazione crititca è condivisa da ampi settori della maggioranza (aggiungo l’intervista del sottosegretario Viletti questa mattina a Radio 24).
    Mi permetto poi di essere in disaccordo sull’ultima parte del tuo intervento, quello che riferimento alla conferenza di pace.
    Vedi, anche io, nel mio piccolo, mi sforzo di lavorare ogni giorno per il superamento delle ideologie, mi piace pensare il mio Paese proiettato verso il futuro senza fare riferimento a canoni che definisco da “trapassato remoto”.
    Questa volontà, che condivido con te e i tuoi colleghi del sito, non va tuttavia d’accordo, a mio parere, con l’equidistanza a tutti i costi. Non sono d’accordo nel mettere sullo stesso piano chi è favorevole ad una conferenza di pace a cui debbano partecipare i talebani e chi invece ritiene la proposta (oltretutto irrealizzabile) come un ulteriore elemento di debolezza della nostra diplomazia.
    Mi riferisco soprattutto a questa frase : “Nel solco neo-ideologico della politica italiana, gli schieramenti si sono divisi equamente tra coloro che erano a favore e coloro che erano contro una tale opzione” ma anche successivamente mantieni un’equidistanza che non condivido. E’ ovvio che pensare i talebani al tavolo della pace non è altro che un tentativo (l’ennesimo) di tenere in piedi una coalizione senza numeri tentando di accontentare, con dichiarazioni sballate come questa, la famosa sinistra radicale. Lottare contro le ideologie è un dovere di chi ama questo Paese, ma va fatto, credo, anche schierandosi, ma con un’unica finalità, l’interesse nazionale, che non significa, a mio parere, non schierarsi su una posizione come questa.
    Con stima per il tuo lavoro,

    Lorenzo Socci
    DocGull
    “Geopoliticando”
    http://blog.libero.it/Italiafelix/

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  5. Avatar alexis

    Ottimo articolo, tranne: “i nemici si combattono per poi siglarvi insieme una pace” e “una coalizione proponeva la battaglia ad libitum” (questa furia anti-ideologica è particolarmente schematica, superficiale ed …ideologica)
    Infatti, mi sfugge la pertinenza del paradigma clausewitziano, nato avendo in mente un mondo fatto di stati che si riconoscono e guerreggiano per motivi di interesse (e che possono mettersi d’accordo con cessioni territoriali), rispetto a conflitti con un attore non statuale di siffatta matrice, che ha come unico fine quello di restaurare l’emirato talebano a Kabul : quale potrebbe essere l’oggetto di possibili trattative di pace e di possibili reciproche concessioni con un attore non statuale del genere suddetto, ispirato ad una ideologia ultra-fondamentalista, che non è rappresentativo di un gruppo etnico, che ha tra le sue file più uzbeki ( pare però che siano diventati ingombranti, dalle notizie che vengono dal Waziristan) e pakistani che non afghani, legato operativamente e ideologicamente a Bin Laden, che non sia la resa e l’offerta di un’ amnistia e la partecipazione alla vita civile senza imporre la propria versione dell’Islam (cosa già applicata ai settori più pragmatici del movimento che avevano aderito per convenienza al momento del suo massimo fulgore) , o al massimo la cooptazione di qualche capo tribale che li protegge per disaccordi con il governo centrale, è un mistero: se accettassero tali condizioni non sarebbero più talebani, come l’ex ministro degli esteri che vive pacificamente a Kabul, dopo una infausta campagna elettorale. Qui si vede l’influenza di Pape, che sarà anche un grande studioso, ma di IR in senso stretto, e pur senza citare le accuse mosse da taluno di avere addomesticato le statistiche, osservo che nel suo libro sul terrorismo suicida (Dying to Win: The Strategic Logic of Suicide Terrorism) , quando si avventura in analisi di tipo storico-culturale sul mondo islamico, usando la sua selezionata bibliografia di comodo, zeppa di fonti apologetiche filo-fondamentaliste – Esposito e compagnia: gente che paragona Hizbollah ai movimenti dei diritti civili americani degli anni Sessanta – una certa goffaggine si nota, per non dire altro (alleanza curiosa e rivelatrice questa, tra i duri del Power-realism e le colombelle della sinistra post-moderna terzomondista, tutti uniti, per ragioni diverse, contro l’odiato “’interventismo” americano). In sostanza, suscita perplessità la tendenza a fare di una tesi recentissima, controversa e tutt’ altro che pacifica, alla faccia di una epistemologia minimamente esigente, una verità rivelata, figlia del tentativo – hegeliano sotto la patina positivistica – della scuola di pensiero cui fa riferimento l’ottimo Gilli di costruire teorie sempre più generiche e onnicomprensive, che scontano un difetto eurocentrico iper-razionalistico, con la pretesa di incasellare culture aliene in schemi noti di matrice occidentale (il nazionalismo per esempio, con il disperante e cialtronesco fenomeno di vedere tradotto il termine “Umma” con “nazione”) per spiegare ciò che non si comprende.
    Passando oltre, rilevo che le citazioni di Hobbes vengono in soccorso della mia tesi (la tendenza dello stato moderno – di cui in Afghanistan si manifesta solo un simulacro , ma è sufficiente – a considerare criminali e non nemici legittimi i cittadini che si rivoltano con le armi)
    Per altro verso, inutile dire che la storia ci offre abbondanti prove di insurrezioni armate ideologiche o etniche semplicemente annientate, soffocate nel sangue, da ultimo la condotta di Putin è esemplare nella sua crudezza – non parliamo dell’Algeria – quindi nessuna necessità “realistica” mi pare imponga tavoli di pace con i Taliban, cui si oppongono anche altre due ragioni:

    1) ideologia talebana che non li predispone a rinunce.

    2) imperativa necessità politica della comunità internazionale di non legittimare un gruppo filo-alqaidista per evidenti ragioni di propaganda. Non per niente in tutte le cancellerie del mondo i talebani sono definiti criminali, non nemici.

    Ribadisco che i conflitti con attori non statuali, molto più spesso nella storia rispetto ai conflitti con altri stati, che si basano sul riconoscimento della legittimità del nemico come corpo politico, (salva annessione totale), a prescindere da una episodica criminalizzazione dei suoi dirigenti, si sono risolti con la distruzione completa degli avversari, considerati criminali, a cui raramente si è offerta legittimazione promuovendoli al rango di nemici legittimi o di interlocutori politici, e la presenza di truppe straniere non inficia la sostanza del ragionamento, e non serve rimarcare la natura anche internazionalistica del conflitto afghano: ad es. in Grecia alla fine degli anni 40 l’insurrezione armata comunista fu soffocata dall’esercito inglese per conto del governo greco, e dopo la guerra franco-prussiana la Comune di Parigi fu annientata brutalmente da Thiers grazie alle benevolenza della Prussia vincitrice: qui è, appunto, Hobbes che rileva non Clausewitz, distinguiamo il “nemico di stato” dal “criminale ribelle”.
    Mentre una diversa sensibilità sulla rilevanza dell’ elemento ideologico – che secondo me rende impossibile, per ragioni diverse, una pace frutto di trattative e RECIPROCHE CONCESSIONI, per la indisponibilità della comunità internazionale e degli stessi talebani – rientra nel regno del contrasto delle opinioni, vista la scuola di pensiero – che tende a minimizzarlo in ogni contesto – a cui appartiene Gilli, d’altra parte la sua pretesa, al fine di canzonare i fautori nostrani erroneamente considerati provinciali, (le reazioni di Olanda e Germania sulla trattative con i “terroristi”, la dicono lunga, la nomenclatura non è casuale: con i “terroristi” non si tratta né sugli ostaggi né su altro, non sono nemici legittimi, talebani RAF o BR non fa differenza per loro) della guerra senza quartiere e senza trattative contro un nemico giudicato intrattabile, di estendere meccanicamente e superficialmente uno schema buono per le relazioni tra legittimi membri della comunità internazionale che guerreggiano per contrasti di interessi e sono destinati a convivere, a conflitti con attori non statali, storicamente non appare un esito obbligato sufficientemente suffragato da chiare evidenze empiriche: come detto, a differenza che nei conflitti tra stati la scelta del tavolo della pace da parte degli attori statali che combattono siffatti ribelli è rara ed estrema, compiuta di fronte ad un nemico invincibile che ha dietro di sé un popoli intero o/e che rinuncia alla lotta armata e che gode di largo consenso internazionale e persino nel paese occupante (non è questo il caso) ; e nell’eventualità di sconfitta totale per i capi delle rivolte armate storicamente non c’è il tavolo della pace dove pure i loro omologhi statuali sconfitti devono subire condizioni umilianti, ma il plotone d’esecuzione o la forca. C’è un caso folgorante nella storia dove si riscontrano unità di tempo, di luogo e (quasi) di azione come nella tragedia greca, e il pensiero torna alla citata sconfitta della Francia nella guerra franco-prussiana e alla repressione della Comune di Parigi: da un lato un nemico disfatto che subisce le dure condizioni del vincitore, dall’altro la distruzione totale anche fisica dell’avversario ideologico e separatista (diverse migliaia di fucilazioni).
    Io non ho niente contro il realismo, anzi, purché non sia la parodia di stesso, e a volte capita; come dicevano i latini: Quandoque bonus dormitat Homerus.

    Saluti conditi dalla massima stima da parte di un Retore insonne

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  6. Avatar Andrea Gilli
    Andrea Gilli

    Caro Lorenzo,

    grazie per l’intervento. Rispondo alla critica. Non so se la mia è equidistanza. Noto solo come entrambi gli schieramenti propongano due posizioni inconsistenti e incoerenti. La mia critica non riguarda l’etica o la moralità dell’invito ai talebani. Mi limito a segnalare come, in senso filosofico consequenzialista, tanto questa soluzione, quanto quella riassumibile nel “combattiamo fino alla vittoria definitiva”, siano errate, in quanto partono da posizioni etico-morali dubbio portando a risultati sicuramente peggiori.

    La guerra si fa per vincere: e la vittoria si ha con il raggiungimento di una pace che l’avversario accetta. Proporre la distruzione del nemico, oltre ad essere di tendenze genocide, è una soluzione irrealizzabile, perchè non considera che il nemico cresce in numero proprio perchè lo combattiamo.

    Caro Alexis,

    parte della risposta si torva in quanto scirtto qua sopra. Sul problema della natura westfaliana della guerra sono più o meno d’accordo. Il tema troppo vasto per essere trattato in questa sede. Obietto però sulle implicazioni che ne trai, almeno in due modi:

    1) I talebani hanno comunque un fine politico, non escatologico. Possiamo considerare folle il loro fine (o non accettabile) e quindi combatterli per “imporre la nostra volontà su di loro”. Ma per batterli, ovvero perchè smettano di combattere non c’è altra via, alla fine, se non quella di una pace.

    2) La stessa critica che tu muovi ai talebani può essere posta, senza eccedere in relativismo etico o culturale, agli USA: i talebani possono tranquillamente dire che con gli USA non si tratta, bisogna distruggerli, perchè vanno in Afghanistan ad imporre che venga costruito uno stato islamico. La critica che si sceglie dipende dalla barricata in cui ci si siede.

    3) Su Esposito dico solo che dubito che la Georgetown university dia la cattedra ad uno che sostiene tesi assolutamente non provate. Possono essere discusse e discutibili, ma non lo tratterei come un incompetente. Bernard Lewis insegna a Princeton, eppure sulle sue raccomandazioni io nutro molti dubbi.

    4) La critica sulla pertinenza di usare il paradigma realista, in questo caso, è pertinentissima. Ritengo che la mia analisi rimanga valida. Ma non nascondo che le obiezioni formulate sono legittime. Dalla mia, dico solo quanto dice William C. Wohlforth (1994/5): il realismo è praticamente non falsificabile, offre proposizioni ambigue e usa concetti non operazionabili. La sua forza emerge solo dopo averlo paragonato agli altri paradigmi”. Se il Realismo guarda alla lotta per il potere, credo che con tutti i suoi limiti anche in questi casi continui ad avere molto da dire.

    Saluti, ag.

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  7. Avatar alexis

    A prescindere dai contrasti di opinione è sempre un piacere discutere con persone competenti (e gentili: quando rileggo i miei interventi mi sembrano sempre un po’ virulenti) come te…

    Saluti da Retore

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  8. Avatar Lorenzo Socci

    Caro Andrea, ti ringrazio della tua risposta.
    Posso dirti che mantengo il mio cortese dissenso alla tua valutazione.
    Non credo davvero possibile che si possano mettere sullo stesso piano coloro che spingono per i talebani al tavolo della pace e coloro che, a mio parere giustamente, vi si oppongono.
    In linea “filosofica” sono d’accordo con te che in molti casi occorra trattare, ma resto convinto che in questa circostanza non sia possibile farlo.
    Per alcune ragioni , innanzitutto perché sono i talebani che non vogliono trattare. Per due motivi direi: lavorano non solo per loro stessi, ma per numerosi apparati del terrorismo islamico internazionale, non per nulla Al Quaeda aveva fatto dell’Afghanistan la propria base logistica. Il terrorismo internazionale non è certamente sconfitto e quindi ha ancora bisogno di quel territorio per perseguire sempre gli stessi obiettivi. Questo è reso possibile dal fatto che (ed ecco un’altra delle ragioni che vorrei sottolineare) un elevatissimo numero di taliban non sono afghani, ma combattenti che arrivano da varie parti del mondo islamico (numerosi , come noto, sono gli uzbeki), non sono quindi interessati ad alcuna pacificazione del loro Paese in quanto non si tratta del loro Paese.
    Allora è impossibile trattare?
    Tutt’altro, non è possibile con loro ma sono altri i protagonisti della scena che potrebbero svolgere un ruolo fondamentale. Innanzitutto occorre un rapporto più stretto con il Pakistan di Musharaff, è noto che, un po’ per volontà, un po’ perché pressato dai propri estremisti interni, il presidente pakistano ha ancora interesse a mantenere alta la tensione e a favorire in certo qual senso i talebani.
    Inoltre, ancora più importante, occorre si un “tavolo della pace” con tutti coloro, afghani, combattenti e non , che sono stati lasciati fuori dal potere attuale.
    Sono loro che potrebbero convergere, per interessi del momento, con i talebani per poi, una volta rovesciato Karzai, ricominciare un devastante tutti contro tutti.
    I talebani in questo modo perderebbero ogni tipo di substrato sociale che, ripeto, spesso non c’è ma che potrebbe nascere sotto gli auspici che citavo sopra.
    Quindi maggiore partecipazione dei clan afghani al governo di Kabul e inflessibilità contro i talebani, le due cose congiunte danno maggiori possibilità di successo per un futuro senza taliban e di pace.

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