di Andrea Gilli
I recenti dibattiti pubblici e parlamentari sulle missioni italiane all’estero richiedono una seria riconsiderazione dell’impegno dell’Italia in chiave internazionale. Negli anni passati, il nostro Paese ha infatti mostrato una solerzia abbastanza inusitata nel mandare i propri soldati all’estero in missioni di pace, peace-keeping o peace-enforcing. Per varie ragioni però i risultati sono stati al di sotto delle attese – non ultima la paradossale situazione nella quale, nonostante l’appena citata solerzia, il Paese si è spesso spaccato proprio su queste missioni: in breve, la maggioranza del momento mandava le truppe, ma l’opposizione vi si opponeva, in una ripetizione a parti invertite della scena che ha una sapore più di tragedia che non di farsa.
Come abbiamo visto sia nel caso della missione in Iraq che più recentemente con la missione in Afghanistan, queste operazioni restano infatti sempre in balia del voto parlamentare, e nell’incertezza della dialettica politica interna – con conseguenze devastanti sulla credibilità del nostro Paese, e pertanto sulla loro stessa utilità.
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